Scorrendone la costa dal mare, le otto isole (Niihau, Kauai, Oahu, Molokai, Lanai, Kahoolawe, Manui, Hawaii), che compongono l’arcipelago delle Hawaii, appaiono ricoperte di colline verdi, un verde che varia tra il verde di Schweinfurt, il verde giottesco, il verde veronese o quello smeraldo. Verde dappertutto, dove le ombre degli alberi galleggiano con aloni dorati, celesti e bluastri, nel cui fogliame dimorano decine di specie di uccelli gai e gracidanti. Verde pastello le colline vulcaniche che si dispiegano verso sud-est, tra Pearl Locks e Honolulu, verde acceso le risaie a nord estese sui fianchi dei vulcani spenti emersi nell’era orogenetica, terra resa fertile dalla lava che il vento e gli uccelli provvidero a ricoprire di vegetazione coi primi semi, cogli antenati dei polinesiani che vi arrivarono con piroghe cariche di animali e piante da trapiantare. Poi, a vista d’occhio, estensioni di canna di zucchero, campi di ananas, caffè, cocco, manghi, papaya, avocado, banani, lime e passiflora, coltivi tipici sulle isole, estesi sotto i rilievi montuosi della catena del Koolau, dei picchi di Haleakala, Mauna Loa, Mauna Kea, sulle cui sommità sopravvive la neve.
Lungo le coste si susseguono barriere coralline dalle tonalità rosee che delineano tra baie, promontori, cale e spiagge, un mare verde d’oltremare o verde mela o verde amazzonico, con striature blu inchiostro o cobalto, a seconda del tempo o del fondale, un mare solcato da iridescenze turchesi o violacee a seconda dell’altezza del sole.
Nella bella baia di Kauai si forma Andy Irons, nato qui il 24 luglio 1978. Qui frequenta le scuole e crescerà all’ombra del padre Phil, falegname e surfista. Con lui e in coppia col fratello Bruce, sin da ragazzo cavalcherà le prime onde, dapprima a Pine Trees, poi quelle maestose del Banzai Pipeline, nell’isola di Oahu, una spiaggia circondata da un’estesa barriera corallina e da fondali bassissimi.
Il Pipeline è il luogo amato dai surfisti professionali per le sue onde, per i suoi fatidici tubi. Nessun luogo al mondo possiede tali caratteristiche, con l’eccezione di Teahupoo a Tahiti con onde che possono raggiungere i sette metri. Il Pipeline ha un fondale corallino pressoché piatto, solcato da caverne sottomarine all’interno che creano sacche d’aria in corrispondenza del punto in cui si frangono le onde. Il pericolo consiste, oltre a quello ricorrente degli squali, nei punti frastagliati di roccia che circondano questo tratto di mare. Luogo di mareggiate che spazzano via interi fondali di sabbia che con la marea successiva danno luogo a onde giganti, quelle riservate ai surfisti migliori, quelli appunto del Banzai Pipeline. Numerosi quelli rimasti uccisi (Joshua Nakata, Joaquin Velilla, Malik Joyeux, Jon Mozo, Moto Watanabe), perciò il Pipeline è considerato lo spot più letale al mondo. La media dell’altezza delle onde è di nove piedi, ma non è raro trovare mareggiate con onde mastodontiche. Lo spazio marino ridotto a volte è troppo affollato per un efficace take off (punto in cui l’atleta prende l’onda alzandosi in piedi sulla tavola); si rischiano collisioni, per cui i surfisti veri tendono a vietarne l’accesso agli estranei. Qui si sono guadagnati la reputazione tutti i grandi del Surf: Butch Van Artsdalen, Gerry Lopez, Shaun Tomson, Mark Richards, Michael Ho, Simon Anderson, Tom Carroll, Sunny Garcia, Kelly Slater, Andy Irons, Jamie O’Brien, Reef McIntosh, Rob Machado, John John Florence, Mike Stewart.
Qui nasce la leggenda di Andy Irons. Durante le Pipeline Master del 1998, Andy precipita (wipe out) con la sua tavola da una altezza di dodici pollici in pieno take off. Viene recuperato a stento dal surfboard, la tavola è ridotta a brandelli. Il surf è uno sport per temerari, su questo non ci piove. Devi essere un poco pazzo per farne un mestiere per cui vivere. Infatti Andy ha una diagnosi di disturbo della personalità, è bipolare.
Chi ha visto Un mercoledì da leoni di Milius conosce l’ambiente dei surfisti, una congrega di amici per la pelle, avulsi a qualsiasi autorità, anarchici puri che interpretano il concetto di libertà in senso assoluto, in una condizione di irresponsabilità sociale, una vita comunitaria basata su feste notturne a base di Pixies, Metallica, Nirvana, rap sino all’alba, consumi abissali di alcol e di droghe, con donne che devono stare al loro posto, perché il surf è stato a lungo considerato uno sport per uomini. Il surf è alla stregua di una religione laica, per cui essere giovane per sempre. Un modello di vita, di condotta, alla cui base c’è un amore per il mare sconfinato, per i suoi ritmi, per i suoi silenzi, remoti dalle vicende umane, soli nel rollio dei suoi movimenti.
Andy è competitivo in gara, si presenta con boxer da kamikaze, rilascia dichiarazioni bellicose contro gli avversari, non disdegna litigi e risse. È un macho. Eppure fuori dai contest è affabile, pronto alla battuta, è una star del circuito ma non è snob, rilascia autografi, si offre ai selfie dei fans. Rider di puro talento, in gara possiede uno stile unico, un power surfing fuori dai canoni, con linee disegnate nei tube spericolate e pazzesche che fanno gridare dalla spiaggia il pubblico di sconcerto. Andy è ripiegato a guscio sotto il frastuono del curf (cresta che frange), poi rialzato appena che bordeggia a destra e sinistra, infine oscurato del tutto dalla massa avvolgente della schiuma, per poi riemergere eretto dal tube, velocissimo sulla tavola, vibrante d’abbrivio all’estremo dell’onda, illeso, felice. Andy capisce l’onda, ne anticipa l’impeto, ne conosce le correnti, sorvola sui frangenti, scende dalla cresta, cambia direzione, diverge la traiettoria dove frange per ricevere l’onda di nuovo in formazione, per rimettersi in linea. Ancora assale la cresta, pare quasi sormontarla, e invece no, giù ancora a capofitto, rapido come un folletto, magico come tutto quanto appartiene all’inverosimile. Un genio del surf, non c’è altro da dire.
Nei primi anni 2000 inizia la sua rivalità con Kelly Slater, il surfista che nel 2011 avrà firmato l’undicesima vittoria del campionato mondiale all’età di 39 anni. Andy lo batte tre volte nella corsa per il titolo mondiale ASP World Tour, nel 2002, 2003 e 2004.
Nel 2003 Andy batte Kelly nella finale dei Pipeline Masters, la più bella heat della storia del surf con ben quattro finalisti allo spareggio, Andy, Kelly e gli australiani Parkinson e McDonald. A forza di ricognizioni del campo di gara è disidratato, la madre lo fornisce di acqua e banane perché soffre di crampi continui, ma Andy non sbaglia campo di gara né l’onda più adeguata. Sbaraglia gli avversari, anche Kelly si deve piegare.
Issato sulle spalle degli amici, Andy è portato in trionfo tra due ali di folla, lui raggiante dirà che la vittoria è stato il sogno di una vita. In quell’anno magico Andy vince non solo la Pipeline Masters ma si aggiudica per il secondo anno consecutivo l’ASP World Championship Tour Title e il titolo della Triple Crown, ossia il massimo ottenibile nel circuito professionistico del Surfing.
Dopo il 2004 non vince mai più un mondiale. Dovrà attendere il 2007 per vincere il Rip Curl Pro Search in Cile. In quest’occasione si mette a inveire contro sponsor e organizzazione. Scopre che, oltre a essere bipolare, è malato di dengue, una malattia infettiva di origine africana. È in crisi, non vede la moglie e la figlia da mesi. Vive dove gli capita, dove gli sponsor lo ingaggiano. Feste e assunzioni di droghe sono ormai uno stile di vita di cui nessuno si preoccupa se non la moglie e la madre.
Il giorno che Slater vince il suo undicesimo titolo mondiale, il 2 novembre 2010, Andy viene trovato morto in un albergo a Dallas. La ASP, dopo il clamore della sua morte, introdurrà test antidroga nei suoi tour, gli sponsor sono stati garantiti ma tutti erano al corrente dell’abuso di droghe nel mondo del surf, anzi la droga era parte della sua aurea.
Il coroner stabilirà come causa di morte un attacco cardiaco e un acuta ingestione di droghe tra cui Xanax, metadone, cocaina, metanfetamina. Le ultime parole di Andy sull’iPhone della moglie incinta del loro secondo figlio sono: «Lyndie, sono io, non posso sopportarlo, sono malato, stavo vomitando in aereo, un inferno, ho intenzione di dormire tutto il giorno. Ti amo».
Un ricordo di Andy dopo la sua terza vittoria mondiale. È assieme al fratello Bruce, Jamie O’Brian, Ian Walsh, sono tutti a surfare alle Isole Fiji. Dopo il surf sino a sera si sbronzano, tirano coca, la notte la passano a giocare a poker, a bere e tirare. Andy perde parecchio contro il fratello, ogni volta che perde si incupisce, la prende male e manda al diavolo il fratello. All’alba prende la sua tavola, vi si stende sopra e nuota verso la barriera corallina nonostante non ci siano onde da surfare. C’è un caldo opprimente, un cielo livido rosato. Ora Andy è appena visibile sull’orizzonte mentre il sole avanza. Gli si nota solo il berretto con visiera, fermo lì cavalcioni sulla tavola, attendendo l’onda che non ci sarebbe mai stata.
Marcello Chinca Hosch