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Angela Tognolini anteprima. L’inverno della lepre nera

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L’ansia del cambiamento: “Dormì senza pensieri né sogni né paure o speranze, e intorno a lei la notte rimase nera e vuota come il fondo di un oceano troppo freddo per essere abitato”.

Verso il futuro: “Scesi in città una mattina di agosto, sulla corriera blu che andava dalla parte opposta rispetto al solito: non dal paese a casa, verso l’alto, ma dal paese in fuori, verso il basso. Avevo appena compiuto diciott’anni e, con la mia valigia comprata per l’occasione e le scarpe che portavo in chiesa la domenica, mi sentivo pronta a tutto. Eppure una voce silenziosa, nascosta dentro il mio petto, non faceva che gridare e non avrei saputo dire se fosse un suono di gioia o di spavento. Nelle tasche avevo un mazzetto di banconote dentro al portadocumenti in pelle di mio nonno, cinque caramelle al miele e il coltello da intaglio. Fuori ero seria e tranquilla, composta sul sedile. Dentro bruciavo”.

Brividi di consapevolezza: “E così, guardando indietro, compresi anche quella paura che mi aveva congelata ancora prima che suonasse il telefono, trattenendomi dal muovermi per la sua stanza. La verità era che non volevo leggere i suoi appunti. Non volevo frugare nei suoi cassetti. Non volevo sapere dove andava nelle notti in cui non dormiva lì. Non volevo conoscere la sua vita senza di me, né la sua infanzia o la sua famiglia, né ascoltare verità o bugie su di loro. Insomma, ora che conoscevo il prezzo reale di scoprire i suoi segreti, speravo solamente di non svelarne altri mai più.”.

È in libreria L’inverno della lepre nera, di Angela Tognolini (Bompiani 2024, pp. 320, € 18).

Angela Tognolini ha lavorato per anni con persone richiedenti asilo e vittime di tratta degli esseri umani. Da questa esperienza nel 2020 è nato il suo primo libro, Vicini Lontani (Il Castoro). Dopo aver vissuto a Londra e Lisbona, si è trasferita in un paesino sulle montagne trentine.

Nadia, una bambina di nove anni, vive con una madre distante e conserva solo ricordi sbiaditi del padre. Dopo Natale, la mamma la porta in un lungo viaggio verso la baita dello zio Tone, situata in un remoto bosco di montagna. Con sé, Nadia porta solo un registro in cui annota le caratteristiche degli animali, suo rifugio sicuro.

In questo ambiente isolato, tra neve e boschi, Nadia impara a conoscere la montagna, ascolta la leggenda della Lepre Nera e scopre il peso invisibile che grava sulle spalle della madre. Insieme, dovranno trovare la forza per sciogliere il gelo nei loro cuori e riprendere il cammino della vita.

L’inverno della Lepre Nera di Angela Tognolini è una storia di montagna, di magia e di riconciliazione tra madre e figlia, immersa in un mondo di silenzi e durezza, ma anche di speranza.

È il racconto di una vita in cui l’amore si intreccia con rapporti tossici e con sogni abbandonati sull’altare della dura realtà. Una madre, una figlia e il loro amore mentre scalano la montagna della vita.

Carlo Tortarolo

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Il freddo, il sole, il riflesso spietato della luce nella neve. La luce che ti entra dentro, riempiendo ogni recesso, illuminando ogni piega. La sensazione terribile e stupenda di essere invincibile.

Tanti anni prima, quando ancora leggevo di spedizioni avventurose sulle montagne, avevo letto che sulle grandi catene montuose, in quelle regioni dove sono i picchi a sostenere il cielo, il bagliore può diventare talmente forte da accecare gli occhi di uomini e bestie.

Dov’ero quel giorno, sulla montagna che non si trovava in regioni lontane ma vicinissima al luogo in cui ero nata, il sole mordeva meno forte. Il suo riflesso mi mandava lampi negli occhi, ma non sarebbe bastata la luce di quella giornata d’inverno a farli ammalare o a fermarmi. In realtà nulla sarebbe bastato a fermarmi.

Era mattina presto e camminavo sciolta e svelta in mezzo alla neve. Era il primo giorno di un nuovo anno, e io ero libera. Il sudore mi colava sul petto e lungo la schiena. Il bosco fumava vapore sotto il sole. Il mio respiro si univa alle volute nell’aria e sui miei capelli si formavano minuscole gocce: come i larici, anche io ero incoronata di luce. Mi sentivo leggera come il seme del carpino. Semplice e limpida

come la neve.

Mentre affrontavo il pendio, non mi vergognavo di essere felice. Certo, ero dispiaciuta di aver ferito Nadia. Sapevo che era arrabbiata, ma sapevo anche che avrei messo le cose a posto il giorno dopo, dimostrandole che non mentivo, che davvero sarei stata con lei, quel giorno e anche quello successivo. E poi tutti i giorni che avremmo ancora trascorso lì, prima di recuperare abbastanza forze per tornare in basso, li avremmo passati fianco a fianco, imparando nuovamente a essere insieme. Perché quella era la mia ultima prova, la mia ultima sfida: l’ultima ascesa per riprendere il filo del respiro. Dopo quella salita sarei andata in montagna sempre insieme a lei, se lo voleva, e sarebbe stato per gioia e per gioco, e non per salvarsi la vita.

Mentre attraversavo il bosco puntando verso il Becco, dovevo ammettere che il pensiero di Nadia arrabbiata mi faceva del male ma anche del bene. Il sogno che aveva fatto l’aveva spaventata, questo significava che era in pensiero per me e che malgrado tutto mi voleva bene. Ma quello che era più importante era che anche io soffrivo, sapendola ferita: anche io le volevo bene. Tanto, tantissimo. Può sembrare terribile che avessi avuto bisogno di un sogno e di un litigio per provarmi il sentimento verso mia figlia. Ma la verità è che quel sentimento, così come ogni altro sentimento, era rinato dentro di me solo da poco, dopo che per tanto tempo era scomparso, riarso come ogni traccia umida dentro alla terra secca dell’estate. E ora la montagna me l’aveva restituito, insieme a tutto il resto: lo sguardo, il respiro, la gamba e il cuore. Soprattutto il cuore.

Erano stati quei giorni in cui ero tornata lì dove tutto era cominciato a riaprire dentro di me il fiume della vita. Avevo dovuto fare ritorno alla partenza per ritrovare la traccia del sentiero. Avevo dovuto fare ritorno alla radice di quella che ero quando ero selvatica, incompresa e libera, prima di incontrare il mondo, prima di scendere in città, di conoscere Sabrina, di amare Valentino, di crescere Nadia. Era di questo che avevo bisogno: di ricordarmi com’era essere sola. Non sola come un’amante abbandonata o come una prigioniera che attende con il fiato sospeso che il carceriere apra la cella, ma sola come un picco, sola come la punta del coltello. Sola come una ragazzina che non ha nessuno e che di nessuno ha bisogno.

Era questo che mi serviva: ricordare cosa significava essere sola per poi ricordare come si faceva a essere insieme. Ed era questo che mi stava insegnando la montagna con la sua luce, il suo freddo, la sua distanza. E anche con il suo fuoco buono dentro alla casetta di Tone, e con Tone, con le fiabe e i rituali del bagno e della cena. La montagna mi stava dando la mattina e la sera. Il giorno e la notte, la fatica e il riposo, la sfida e il sogno.

Quella era la mia ultima scalata. L’ultima prova per dimostrare a me stessa che potevo ancora essere quella di un tempo. E se non proprio quella di un tempo, potevo comunque essere altro rispetto alla donna inaridita e sfibrata che ero stata negli ultimi anni.

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