“Il colore della melagrana” di Anna Baar (Voland, 2023 pp. 288 € 19.00), nella traduzione di Paola Del Zoppo esce nelle librerie il 10 novembre. Il libro affronta le riflessioni sociali, etiche e sentimentali sull’approccio evocativo tra due lingue, pone l’attenzione letteraria e il significato popolare sull’articolazione evidente e divulgatrice delle divergenze tra la lingua serbo-croata e quella tedesca, rafforza il richiamo ancestrale del dissidio interiore nel patrimonio della formazione culturale, diffonde, nel colloquio familiare della crescita educativa, lo svolgimento spirituale e ideologico della confidenza. Anna Baar circonda la sua ricognizione estetica con il contributo profetico dell’insegnamento etico e della difficile, ma generosa, comprensione di chi accresce l’istruzione e la preparazione tra due culture, dipinge l’aspetto incisivo dell’infanzia della protagonista Ana con la tonalità efficace della nostalgia, con le sfumature dei colori e dei profumi immersi nell’arcaico rifugio degli affetti, nel sentimento di profonda identificazione e nell’istinto primitivo di ogni legame emotivo. L’efficace possesso della narrazione domina l’intreccio elegiaco e biografico dell’autrice, fonde episodi di commoventi ricongiungimenti romantici e assalti contraddittori dell’allontanamento identitario, viaggia intorno al fragore incantevole del conforto protettivo di ogni estate, vissuta dalla protagonista in compagnia della nonna Nada su un isola della Dalmazia.
Il linguaggio di Anna Baar condensa la dimensione del rifugio stilistico nel pungente e imprevedibile scenario della memoria, storica e individuale. Anna Baar affida la convivenza dell’esperienza nella funzione della coscienza di sé, nella consapevolezza del conflitto psicologico e nel passaggio pertinente e al tempo stesso straniero della disposizione alla sensibilità verso ogni influenza espressiva. Testimonia la forza del cambiamento, descrive l’istintiva autenticità delle parole, salvaguardate nella eredità di una genesi femminile, ascolta la reciprocità delle conversazioni tra nonna e nipote lungo gli argini smarriti e dolorosi di una ispirazione emozionante dei ricordi e dell’accoglienza, celebrata nell’affermazione della libertà e nell’indipendenza dell’anima.
Dichiara tra le pagine intrise di strategica ed esclusiva intraducibilità linguistica, l’autonomia dell’inesprimibile, inserisce il profilo drammatico della guerra e il dettaglio universale della realtà sconvolta e inquieta intorno all’ombra allarmante della seconda guerra mondiale. Congiunge il vincolo della vicinanza nel legame primordiale, madre di tutte le reminiscenze nell’universo delle origini e nel territorio della civiltà assimilata, incrocia le deviazioni del cammino della bambina Ana verso la confortante residenza del cuore e la relazione della speranza. “Il colore della melagrana” tinge le discordanze delle prospettive umane, assorte nel flusso rivelatorio dell’appartenenza, celebra il pensiero di pronunce linguistiche differenti, caratterizzate da una lettura intertestuale, rappresenta l’identificazione delle necessità umane e delle esitazioni, dona il requisito intelligente all’inclusione, alla parabola lirica della comunicazione. La scrittura di Anna Baar comprende l’emancipazione di ogni testo originale come il tratto distintivo della intuizione introspettiva nella forma espressiva della comunità, trova il giusto equilibrio nella nobile creazione del dialogo, come attestazione dell’insediamento da oltrepassare per sorprendere il confine dell’indicibile.
Rita Bompadre
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L’addio all’infanzia iniziò con un desiderio indiretto, con la certezza dell’irrecuperabilità e della perdita. Il cosmo di bellezze sontuose, paure e leggi segrete divenne deserto, e con quello tutta la speranza che un giorno il desiderio potesse ancora aiutare, come ai vecchi tempi, in cui si diceva che desiderare e pregare
aiutassero. E se anche succedesse adesso quello che avevo desiderato, comunque
non si avvererebbe mai.
Venne un’estate in cui mi ritrovai in me stessa e nulla poteva
togliermi la mia allegra indolenza, che solo agli occhi e nelle parole degli altri era preoccupante. Niente mi inquietava più, tranne forse il volto spaventato di Nada e le sue narici che tremavano quando parlava di Vesela, piena di recriminazioni contro il destino e contro il mio cattivo sangue, e alcune delle sue formule di comando, un’alzata di spalle offesa per scuotermi dalla mia innata aria di sfida, la parlantina, che comportava risposte per tutto, la sua commozione sentimentale, il suo giudizio codificato nei rapidi battiti di ciglia, e di certo anche la tana piena di cadaveri di gattini che aveva scoperto togliendo tronchi e rami dalla catasta di legna, per impilarli con cura in un’altra zona del giardino, non perché fosse necessario, ma perché è il lavoro a rendere le persone persone, Rad je stvorio covjeka! – e poi, con il giubilo stupito di un cercatore di tesori: Guarda cosa ho scoperto!, quasi si aspettasse che una scoperta del genere potesse farmi piacere.
Alcune cose che una volta erano minacciose o eccitanti adesso sembravano ridicole: la paura della rabbia di Nada, per esempio,se uno dei gatti selvatici faceva le fusa strusciandosi contro la mia gamba, oppure la sua preoccupazione che mi toccassi troppo spesso la picka o che il mio sedermi in grembo a uno dei barbas potesse suscitare desiderio – Gli uomini in queste cose non sanno controllarsi! – o che un boccone incauto potesse soffocarmi ed essere la mia rovina – Pensa un po’: Barba Frane è soffocato con una spina di pesce! L’isola poteva essere una nave oppure no e il suo andare alla deriva o affondare una questione di tempo, proprio come il caldo, il maeštral che piegava l’erba, le alghe che ondeggiavano, le mosche delle carogne che, quando si era a tavola o si faceva la siesta, nonostante tutti gli sventolii, i battiti di mani e l’agitazione, si attaccavano continuamente, dopo un breve svolazzo, alle pelli sudate e salate e alle croste delle ferite doloranti, su cui camminavano allegramente sfregandosi le zampette, come se per quella stupida impresa valesse la pena rischiare il collo. Un tempo avevo lasciato che le mosche seguissero la loro strada, se non mi si attaccavano direttamente alle labbra o troppo vicino agli angoli delle palpebre, perché quel solletico gentile, a volte, era l’unica tenerezza del lungo giorno.
Le persiane si erano aperte. Ciò che fino a poco prima era nascosto dietro una lieve
coltre si spezzò in una luce abbagliante, voleva ristabilire le misure, statuire un nuovo
ordine mondiale. Ciò che era penetrante si era fatto invadente, un disagio nella luminosità, da cui una mente giovane fugge nell’ombra e nella tenebra.
La magia era poi solo un retrogusto se strappavo di sfuggita i fiori di lavanda o i rametti di rosmarino, strofinandoli tra le dita per sentirne l’odore, o se udivo da lontano la sirena di una nave e mi precipitavo in spiaggia o alla ringhiera di ferro battuto della veranda con le decorazioni a quadrifogli, per intravedere la sagoma del transatlantico che attraversava il canale dell’isola, per indovinarne il nome come Nada, che per tutto aveva un termine e un nome, il che era sufficiente per mettersi in mostra: Porozina, Srbija, Kastav, nomi fieri come le navi stesse, che portavano sempre qualcosa di audace, di maestoso: il profumo dei mari del mondo e dei porti esotici, la miscela di ruggine, catrame e olio pesante, il coraggio dei marinai, la voglia di partire.