Probabilmente la più straordinaria attrice italiana del ventesimo secolo, anche se negli anni che precedettero la sua morte il nostro cinema non aveva più saputo offrirle occasioni degne del suo inarrivabile talento. La storia artistica di Anna Magnani inizia con l’allora in grande auge Teatro di rivista, dove duettava con quell’altro fuoriclasse bistrattato di Totò, seguita dal personaggio della donna vistosa e un po’ volgare negli anni dei cosiddetti Telefoni bianchi, come la Loretta che flirta con un giovane De Sica in Teresa Venerdì e in quei romantici duetti romaneschi con Aldo Fabrizi in L’ultima carrozzella e Campo de’ fiori. È a quel punto che gli emergenti maestri del cinema neorealista si accorgono di lei e se la grande occasione di Ossessione di Visconti le sfugge nel 1942, causa l’inaspettata gravidanza, così consacrando il fascino più “nebbioso” di Clara Calamai, sarà il nuovo compagno Roberto Rossellini a trasmettere a tutto il mondo quella tragica corsa della popolana Pina al grido «Francesco» nel più famoso film italiano Roma città aperta, uscito nel 1945, tra le macerie dell’ultima guerra.
Perde il suo regista di riferimento per la diva svedese che viene da Hollywood, e pare proprio a causa di una delle tante proiezioni americane del film che le aveva dato la gloria, ma in cambio trova molto altro. Prima l’immenso Edoardo De Filippo della napoletana Assunta Spina, quindi Luigi Zampa che con L’onorevole Angelina, che le varrà la coppa Volpi a Venezia, la consacra per sempre all’immaginario collettivo come la popolana Nannarella, e infine Luchino Visconti che le offre nel 1951 il ruolo della vita, quella straordinaria madre di Bellissima, e a quel punto si muove anche Hollywood. Nel 1955 la chiamano a recitare in inglese il ruolo di Serafina in La rosa tatuata, scritto per lei da Tennese Williams, e vince l’Oscar con la sua travolgente recitazione in lingua che sdogana un Burt Lancaster non ancora riesumato dai maestri nostrani Visconti e Bertolucci. A riprova che la sua grandezza non necessitava affatto del gergo romanesco, come purtroppo si è continuato a raccontare, dopo l’Oscar per aver recitato in inglese, Anna Magnani verrà chiamata a dare sfoggio anche del suo perfetto francese da calibri quali Jean Renoir e Claude Autant-Lara. Ma anche in Italia offre prove di grande versatilità, vestendo prima i panni della suora borghese Suor Letizia con Camerini e quindi quelli della chiassosa detenuta dal cuore d’oro in Nella citta l’inferno di Castellani con Giulietta Masina.
In USA, dove l’Oscar l’ha resa una diva, torna a girare altri due film oltre oceano con mostri sacri come Antony Quinn e Marlon Brando, ma il successo di cassetta sarà modesto. Ormai siamo agli inizi degli anni ’60 ed esplode la commedia all’italiana che sembra non lasciare spazio a un’attrice di tal fatta che sceglie quindi, dopo tanti anni, di nuovamente cimentarsi coraggiosamente a Teatro con lavori impegnativi come Medea e La lupa. Meno male che a lei ci pensano due grandi del cinema nostrano come Monicelli e Pasolini, il primo riportando sullo schermo con Risate di gioia quell’antica accoppiata con Totò e il secondo con quel capolavoro di Mamma Roma che sarà anche il suo ultimo grande personaggio. È il 1961 e Anna Magnani ritiratasi ormai disillusa nel lusso del suo attico di Palazzo Alfieri solo agli inizi degli anni ’70 si lascerà convincere dal giovane emergente Alfredo Giannetti a girare ben quattro film per la tv di vago sapore verghiano. E allora come d’incanto gli italiani riscopriranno la Magnani non potendo restare indifferenti a quella sequenza de La sciantosa in cui canta una versione straziata con un fil di voce arrochita dal fumo di ’O surdato ’nnammurato per uno squallido plotone di feriti sul fronte. Per il suo saluto finale ci pensa Federico Fellini che giustamente non trova altro di meglio per chiudere il suo film dedicato a Roma che l’immagine della Magnani che rientra a casa a tarda sera.
L’anno dopo ai suoi funerali parteciperà la città intera ma nell’abusata vulgata della Nannarella donna del popolo, ben pochi diranno che quello che pareva istinto e spontaneità era in realtà il frutto di una grande scuola e di uno straordinario professionismo. “Parlare di arte è difficile e di altro io non so parlare”, rispose una volta a chi le chiedeva come mai rilasciasse così poche interviste e “Ho già fatto troppo film brutti ultimamente”, dirà invece a chi le chiedeva le ragioni della sua prolungata assenza dagli schermi. Un’attrice senza tempo.
Davide Steccanella