Elio Vittorini. Conversazione in Sicilia
Io ero, in quell’inverno, in preda ad astratti furori. Non dirò quali, non di questo mi son messo a raccontare. Ma bisogna dica che erano astratti, non eroici, non vivi; furori, in qualche modo, per il genere umano perduto. Da molto tempo questo, ed ero col capo chino. Vedevo manifesti di giornali squillanti e chinavo il capo; vedevo amici, per un’ora, due ore, e stavo con loro senza dire una parola, chinavo il capo; e avevo una ragazza o moglie che mi aspettava ma neanche con lei dicevo una parola, anche con lei chinavo il capo. Pioveva intanto e passavano i giorni, i mesi, e io avevo le scarpe rotte, l’acqua che entrava nelle scarpe, e non vi era più altro che questo: pioggia, massacri sui manifesti dei giornali, e acqua nelle mie scarpe rotte, muti amici, la vita in me come un sordo sogno, e non speranza, quiete. Questo era il terribile: la quiete nella non speranza. Credere il genere umano perduto e non avere febbre di fare qualcosa in contrario, voglia di perdermi, ad esempio, con lui. Ero agitato da astratti furori, non nel sangue, ed ero quieto, non avevo voglia di nulla. Non mi importava che la mia ragazza mi aspettasse; raggiungerla o no, o sfogliare un dizionario era per me lo stesso. Ero quieto; ero come se non avessi mai avuto un giorno di vita, né mai saputo che cosa significa essere felici, come se non avessi nulla da dire, da affermare, negare, nulla di mio da mettere in gioco, e nulla da ascoltare, da dare e nessuna disposizione a ricevere, e come se mai in tutti i miei anni di esistenza avessi mangiato pane, bevuto vino, o bevuto caffè, mai stato a letto con una ragazza, mai avuto dei figli, mai preso a pugni qualcuno, o non credessi tutto questo possibile, come se mai avessi avuto un’infanzia in Sicilia tra i fichidindia e lo zolfo, nelle montagne; ma mi agitavo dentro di me per astratti furori, e pensavo il genere umano perduto, chinavo il capo, e pioveva, non dicevo una parola agli amici, e l’acqua mi entrava nelle scarpe.
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Sono queste le parole del denso incipit del capolavoro di Elio Vittorini Conversazione in Sicilia, tra i libri cardine del Novecento.
Uscito prima a puntate sulla rivista Letteratura fra il 1938 e il 1939, è un romanzo spesso citato come perfetta commistione di testimonianza etica, impegno civile e scrittura neorealista eppure lirica, a tratti sperimentale e onirica, apparentemente intimistica ma di peso specifico universale.
La vicenda narrata è quella di Silvestro Ferrauto, un tipografo siciliano che ha trovato casa a Milano da molti anni e che alla ricezione di una lettera dal padre, ferroviere libertino e buono a nulla che ha deciso di abbandonare la moglie per un’altra donna, si trova spinto a un viaggio di ritorno in Sicilia: una discesa junghiana, verso una madre da consolare e una Madre Sicilia, da riscoprire, comprendere, renderla paradigmatica, un exemplum.
Già in treno si moltiplicheranno per lui gli incontri e le conversazioni, appunto, con personaggi-allegorie (il Gran Lombardo, poi il bracciante agricolo col suo carico di arance, unico salario, e altri), escamotage per narrare sfuggendo alle maglie della censura fascista e far filtrare, all’indomani della guerra di Spagna, un grido alto e limpido, eternamente attuale, contro tutti i conflitti.
Traspare nei dialoghi il porsi dell’autore dichiaratamente dalla parte di chi delle guerre ma non solo, pure negli sfalsati rapporti di potere fino nelle battaglie intime, quotidiane, diventa vittima, diretta o indiretta: di chi vive pur agitato da potenziali, civili, passioni, nella tragicità di una quiete che pare palude – in quello che felicissimamente Vittorini definisce il mondo offeso (molto, molto offeso è il mondo, molto offeso, molto offeso, più che noi non sappiamo).
Dei tanti che stanno a capo chino ma cercano comunque dignità e centro e provano a tenersi in piedi: anche con quell’acqua che continua a entrare nelle scarpe.