Dopo La signorina Gold: un’ostetrica a Berlino Mondadori pubblica il nuovo romanzo di Anne Stern Gli anni dell’amicizia, con la traduzione di Silvia Albesano. L’autrice di Berlino prendendo ispirazione dalla corrispondenza e dalle fotografie di due donne realmente esistite tesse la trama di un’amicizia intensa, di un legame artistico profondo, quella tra Lotte Laserstein e Traute Rose, tra pittrice e modella fotografa.
L’incombere della guerra in Germania dissipa le tracce della pittrice ebrea Lotte, costretta alla fuga, sino ad un ritrovarsi in Svezia dopo molti anni. Il ricordo è fervido sebbene siano “passati quarant’anni dai tempi di Berlino, quasi mezzo secolo”, è come sbirciare “in un’epoca remota dal buco di una serratura”. Eppure la Storia ha lasciato lividi, Lotte non può tornare a Berlino. Tra demoni e ferite, tra passato e presente, tra realtà e finzione,“la luce filtra tra le dita con scintillii rossastri e d’oro” a illuminare il sodalizio di spirito tra due donne emancipate.
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Oggi Ernst, Lotte e io visitiamo una mostra. Qui in città, al Konstmuseet, qualche anno fa erano esposti anche dei quadri di Lotte, e hanno avuto un discreto successo, sostiene lei. Vorrei sapere che cosa significa, oggigiorno, forse semplicemente che in seguito due o tre famiglie rispettabili hanno invitato Lotte a casa loro e le hanno chiesto di ritrarre i propri figli. Per la parete libera sopra il divano. Ultimamente Lotte dipinge così tanti bambini che mi chiedo se dietro non ci sia qualcosa di più. Una sorta di antica nostalgia? Questo, però, è un argomento che non vogliamo toccare, e abbiamo le nostre buone ragioni, quindi tengo la bocca chiusa e ammiro sorridente gli adorabili ritratti sul suo cavalletto. Lotte in effetti è sempre stata impareggiabile nel dipingere i bambini, comprende la loro piccola anima, ha una tale facilità nell’avvicinarli neanche avesse cinque figli. Lei stessa una volta ha detto che la capacità di entrare in sintonia con i bambini non deriva dalla maternità ma è un talento innato. Di fronte a dichiarazioni del genere io devo sempre sforzarmi di non battere ciglio. Non è strano che abbiamo così pochi bambini intorno, che nessuna di noi tre sia diventata madre? Lotte, sua sorella e anch’io. Con noi si esaurisce il flusso delle generazioni, e io devo impormi di non pensare che stiamo seccando. La mostra è dedicata a un oscuro scultore contemporaneo e non vale neanche la pena parlarne: mi tocca dirlo purtroppo, anche se non sono un’esperta, men che meno un’artista. Be’, Ernst non perde occasione di decantare i meriti delle mie fotografie e sottolinea sempre che all’epoca, a Berlino, ho lavorato per due atelier di medie dimensioni. In una fase in cui la fotografia, all’improvviso, riceveva un forte impulso grazie alle nuove tecniche, alle piccole macchine fotografiche manuali e soprattutto alle riviste che a Berlino durante la repubblica di Weimar venivano vendute come il pane e avevano un gran bisogno di foto. Mi avrebbero pagato in moneta sonante, sostiene lui. Posso solo dire che di sonante c’è stato ben poco. Se non avessi avuto Ernst, che provvedeva al mio mantenimento, e Lotte, che di tanto in tanto mi allungava qualcosa dei suoi magri proventi, con il poco denaro che guadagnavo con i miei lavoretti avrei potuto serenamente morire di fame, perché era meno di niente. Ma a Ernst piace vedermi come un’artista incompresa, e a me deve star bene così. Oggi in Germania accetto di nuovo delle commesse, piccoli, semplici lavori per un annuncio pubblicitario o un servizio giornalistico. Meno artistici sono, meglio è. Ho vinto anche un paio di concorsi con i miei pastelli, ma quello non conta. Come ho avuto modo di vedere al museo, la moderna propensione per l’astrattismo non risparmia nemmeno la Svezia, e non c’è grande sensibilità per il realismo intelligente e sensuale di Lotte, temo, come in tutto il resto d’Europa.
La diffidenza per il naturalismo, tanto venerato dai nazisti e dunque equivoco per i secoli a venire, è molto radicata. Ma che cosa significa questo per una pittrice ebrea che vuole dipingere il mondo così come lo vede? Che non vuole soltanto disegnare triangoli e palle che rotolano o pitturare una tela di un solo colore e appenderci sopra un cartellino con una data? Vedo che Lotte incespica, che rischia di essere travolta dall’inconsistenza dell’arte contemporanea, eppure la sua arte è più moderna di qualunque altra! Che cosa può esserci di più moderno della verità? Vaghiamo annoiati per le sale del museo, abbozziamo qui e là sorrisi di circostanza, come se quel che vediamo fosse una rivelazione, pur di non seminare diffidenza. So che se Lotte non dipendesse finanziariamente dai curatori, se non dovesse guadagnarsi il pane con la sua arte, potrebbe finalmente tornare a dipingere come vuole lei, andare di nuovo in profondità. Sono davvero inorridita dalla convenzionalità dei suoi dipinti attuali, paesaggi, bimbetti, persino fiori! Come fosse paralizzata dalla paura. Ma tengo a freno la lingua. Chi sono io per ferirla, dal momento che la sua situazione appare così irreparabile? E perché mi aspetto da lei più di quanto io non chieda a me stessa? Più tardi, mentre beviamo un acquoso caffè svedese con un conoscente di Lotte, un uomo cordiale di nome Walter, che parla animatamente con Ernst degli scrittori dell’esilio, si presenta tuttavia l’occasione di chiederle che cosa si aspetti lì a Kalmar. Devo provarci. «Cucciola mia, non capisco la domanda.» Mi riesce difficile crederle. Per di più il nomignolo mi indispettisce e allora divento un po’ cattiva. «Che prospettive hai qui?» la incalzo. «Vuoi dipingere per sempre ragazzini noiosi, notabili e dignitari, per non parlare delle fioriere?» Come suo solito Lotte protende imbronciata il labbro superiore, infastidita, pensando probabilmente che la sua espressione la faccia apparire superiore. Ma è solo dispetto, il dispetto del bambino colto in fallo. «Bisogna pur vivere!» esclama. «Non posso rifiutare nessuna commessa, non qui, in una cittadina così piccola dove tutti mi conoscono. Non me lo posso permettere. E neanche tu potresti.» Alzo le spalle e bevo un sorso del mio orribile caffè. Lotte si allunga verso di me. «E poi, Traute, ricordati di quel che diceva sempre Wolfsfeld. Quando sei davvero bravo, quando hai finalmente raggiunto qualcosa nell’arte, nessuno si interessa più. Adesso la vedo anch’io così; persino Leibl, Menzel sono stati fraintesi, quindi è un onore per me, un complimento, in fin dei conti.» Rimango in silenzio, perplessa. Lotte se la racconta, lo sa anche lei, e sa che io lo so. Ma a che serve continuare a tormentarla? Da quando Wolfsfeld è morto, le sue parole, per lei, sono scolpite nella pietra ancor più di prima. Un’icona che nessuno può toccare, ecco cos’è diventato per lei. Ma più la vedo qui, meno capisco perché non torni a Berlino. O forse sì, lo intuisco, ma è una ragione valida? Che follia quando i vivi si danno la colpa per la morte degli altri! È il presunto scandalo dei sopravvissuti, la vergogna per non essere stati gasati nei campi che trattiene così tanti in esilio, persino ora che la via del ritorno sarebbe spianata. Trovo sconvolgente che le vittime si vergognino per le azioni dei criminali che hanno usato violenza ai loro pari, che li hanno cacciati dalla loro patria e non di rado annientati completamente. Ma con la vergogna è così, colpisce le persone sbagliate, gli offesi e non i colpevoli. Adesso però non sarebbe più semplice voltare pagina?