A volte facciamo scoperte inaspettate. La mia ultima scoperta è stata trovare L’ascesa di Levinsky tra le prossime uscite di Mattioli 1885, un libro che dopo più di cento anni dalla sua pubblicazione, per la prima volta, viene tradotto in Italia. L’autore è uno dei più grandi scrittori ebreo-americani di prima generazione. Abraham Cahan. Uno dei tanti che a fine Ottocento sono saliti su una nave puzzolente, e piena di malattie per raggiungere una terra lontana.
La storia dell’autore è anche la storia di David Levinsky, ebreo russo che «giunto in America con solo quattro centesimi in tasca.» nel giro di pochi anni, così come nella Trilogia dei fratelli Lehman di Stefano Massini, diventerà uno tra i più grandi commercianti di tessuti degli Stati Uniti. La storia di una vita, ma soprattutto «Il più importante di tutti i romanzi sull’immigrazione» come affermava il critico letterario Carl Van Doren. L’ascesa di un ragazzo, raccontata con intimità e cura, logorata dal tentativo di sanare la mancata integrazione e la nostalgia per un passato che appare sempre più lontano e idealizzato.
L’autore ci lascia un romanzo che di certo non si distingue per l’originalità della prosa. Ma che non danneggia in nessun modo la sua fruibilità. Anche grazie alla traduzione di Livio Crescenzi e Silvia Zamagni, quello che cerco quando leggo Cahan è la sua capacità di evocare le zone povere e disagiate dell’ East Side. La sua cura da una parte, nelle descrizioni dei mestieri e dei processi lavorativi, e dall’altra, nel raccontare le storie dei visi che popolavano le strade di Manhattan. Leggo la vita di Levinsky perché vi trovo i dettagli delle piccole faccende quotidiane di un intero popolo. E per questo, dovreste leggerlo anche voi.
Esther Fantuzzi
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Di seguito un estratto in anteprima
Da ragazzo ero convinto che le persone di mezz’età rivedessero la propria gioventù come attraverso un velo di nebbia. Ora capisco meglio. La vita è molto più breve di quanto immaginavo che fosse. Gli ultimi anni trascorsi nel mio paese natale, e il primo periodo in America, mi tornano in mente come se li avessi vissuti solo ieri. Anzi, il ricordo di certe sciocchezze della mia infanzia è molto più nitido di quello di molte faccende importanti capitatemi di recente. In genere ricordo abbastanza bene i volti, ma riconosco più facilmente persone che non vedo da più di un quarto di secolo rispetto ad altre che frequentavo solo pochi anni fa.
Amo ripensare alla mia giovinezza. I giorni più cari della vita sono quelli che sembrano molto lontani e contemporaneamente molto vicini. La mia infanzia così miserabile mi richiama di continuo, come fa un figlio malato nei confronti della madre. Sono nato nel 1865 ad Antomir, nella Russia nord-occidentale. Tutto quello che ricordo di mio padre è la sua barba fulva, un’enorme mela gialla che mi diede una volta davanti al cancello del frutteto dove lavorava come guardiano, e la candela accesa accanto al suo capo, il corpo a terra avvolto da un sudario bianco.
Quando morì avevo solo tre anni, per cui mia madre mi portò in braccio in sinagoga perché qualcuno recitasse la preghiera dei defunti con me. Naturalmente io non ero in grado di comprendere appieno il significato della cerimonia, ma il senso di solennità e di pathos di quel momento rimasero per sempre dentro di me. Nel sangue della mia gente c’è una vena di tristezza: probabilmente è per la nostra origine orientale, e se è così questo sentimento dev’essere stato assai alimentato da molti secoli di persecuzioni.
Potendo fare affidamento solo sulle proprie forze, mia madre cercò di mantenerci facendo la venditrice ambulante di passata di piselli e sbrigando qui e là dei lavoretti, quando le capitava. Una vita dura, la sua, spietata, e il peso della fatica e della solitudine in quei primi tempi si avvertiva anche in casa.
Ero tutta la sua vita, anche se mi risparmiava quel torrente di lodi senza senso che le altre madri ebree riversavano sui loro figli. Le uniche parole di tenerezza che le sentivo dire spesso erano: “Fagiolino mio” e “Consolazione mia.” Talvolta, quando sembrava schiacciata dalle miserie dell’esistenza, mi chiamava: “Il mio povero orfanello.” Di solito, però, diceva: “Vieni qui, consolazione mia” “Hai fame, fagiolino mio?” o “Sei il mio stupidino, consolazione mia.” Queste parole e il tono di voce da contralto con cui le pronunciava sono rimaste sempre vive nel mio cuore, come la fiamma eterna nella sinagoga.
© 2019 Mattioli 1885