Adelio Fusé è uno scrittore e saggista milanese. Ha all’attivo diverse collaborazioni con artisti e musicisti, inoltre scrive per numerose riviste. Questa sua poliedricità si ritrova nei suoi scritti e soprattutto nella sua ultima fatica, edita dalla casa editrice Manni, dal titolo Le direzioni dell’attesa (pagg. 352, € 25), da domani in libreria.
In questo romanzo, Fusé torna su alcuni temi che a me sembrano importanti nella sua produzione, ovvero la vita in arte e il viaggio inteso come formazione. Già in L’astrazione non è la mia passione principale si era mosso in questa direzione, con esiti del tutto differenti.
La vicenda coinvolge due artisti, Walter e Alina, che inseguono le reciproche aspirazioni e come spesso capita ai giovanissimi che – per loro fortuna – poco sanno e molto credono di sapere, gli pare che l’arte e la vita debbano collimare necessariamente. La fissazione che la vita o è artistica – in tutte le sue sfumature – o non è. Ragazzi, questi, come tanti, ricchi di talento e sempre sulla soglia della dissipazione, con più miti che ricordi, che provano a dare un senso alla stagione più sfuggente dell’esistenza: la giovinezza. Lui è uno scrittore, lei un’attrice. Entrambi hanno passione, attitudine e una certa propensione a non rimanere mai a lungo nello stesso posto. Per questo si perdono e si ritrovano in una maratona di eventi rocamboleschi.
Romanzo di formazione, dunque, ma anche una favola dolce, dallo stile spesso spigoloso. Fusé ama le espressioni crude e non ci rinuncia. Adora le fughe notturne, le scene di lunghi e dettagliati amplessi. È una fuga, questa, anche per chi legge. Un ritorno al passato, ognuno il proprio, un passato che si vorrebbe aver avuto, uguale, almeno in parte. Si legge velocemente,e ci si sposta da una città all’altra come il Monsone con la stessa libertà dei gatti, che conoscono l’amore, ma senza legame.
Pierangelo Consoli
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Di seguito l’estratto in esclusiva da Le direzioni dell’attesa
Mentre vagavo per l’Europa, avrei potuto incontrarla. Aveva recitato a Londra e in altre città europee dove io avevo soggiornato o ero stato almeno di passaggio, insomma – disse – l’Europa l’aveva girata anche lei, forse le coincidenze temporali ci avevano portato nella stessa città, lei ignara della mia presenza, io della sua. Qualora ci fossimo trovati nella stessa città, io, passando davanti a un teatro, avrei potuto leggere il suo nome sulla locandina; oppure avrei potuto leggerlo sfogliando un giornale che dava notizia dello spettacolo. Oppure, ancora, sentirlo pronunciare in un bar, alla fermata di un autobus, o nelle occasioni più strane e imprevedibili. Quanto a me, sarei stato tentato di mescolarmi fra il pubblico, nonostante i miei pessimi sentimenti nei suoi confronti?
Secondo Alina avrei colto quell’opportunità. Ma volle che fossi io a dirlo. E io ammisi, allora, che avrei passeggiato avanti e indietro, fuori del teatro, incerto sul da farsi; forse mi sarei allontanato un poco, forse molto, ma sarei tornato sui miei passi. Infine avrei lanciato in aria una monetina e sarei poi entrato comunque, a prescindere dall’esito del lancio. Avrei visto lo spettacolo, sia pure in incognito, tenendomi appartato per evitare che lei dal palcoscenico potesse scorgermi.
«Ma io dal palcoscenico, anche nei momenti di concentrazione più tesa, vedo tutto e tutti, sempre. E proprio tu mi saresti sfuggito?» disse lei, bevendo un sorso di vino. Avevamo stappato la seconda bottiglia, questa volta un bianco, nonostante i propositi di moderazione, dato che il giorno dopo ci saremmo rimessi in viaggio e sarebbe stato opportuno essere reattivi, soprattutto se Charles fosse davvero riuscito ad accodarsi. «Chissà, forse dalla scena mi sarei rivolta a te di persona, con un cenno eloquente. Persino qualche parola. Forse sarei persino balzata giù. Avrei potuto farlo, sai?»
«Oh, ne sono certo…»
Lei, così come avrebbe potuto vedere me entrare nel teatro dove recitava, avrebbe potuto mettere piede nel locale dove lavoravo. D’altra parte io avrei potuto scorgere non solo il suo nome sulla locandina fuori da un teatro, ma lei in persona. Erano soltanto alcune fra le diverse, innumerevoli possibilità. Nessuna si era verificata ma avrebbe potuto. Ci eravamo invece incontrati su una spiaggia nei dintorni di Cabo de São Vicente, dove lei aveva dato il benservito a quel Charles. Avevamo buttato del tempo prezioso? A parere di Alina avremmo potuto gettarne via dell’altro. Ci eravamo incontrati su quella spiaggia ma sarebbe bastato un nonnulla per rimandare ancora. C’erano voluti quasi otto anni per convergere di nuovo nello stesso punto: potevano essere meno, o molti di più. Un fatto si stagliava sopra qualunque altro: l’incontro era avvenuto. «Dovremmo considerare il nostro incontro nelle giuste proporzioni, e riconoscere che sono enormi, non credi?» disse lei. Sì, anch’io lo credevo.
Sì alzò e si avvicinò all’auto. Iniziò a frugare nell’abitacolo. La piccola luce interna mi permise di intravedere, almeno un poco, il suo corpo piegato in avanti oppure allungato sul sedile. Ma cos’era quel rumore di rametti spezzati? Che ci fosse qualcuno acquattato a spiarci? Eppure, proprio come Alina aveva suggerito, era più prudente passare lì la notte, piuttosto che viaggiare nel buio: come distinguere dagli altri i fanali dell’auto di Charles? E poi nemmeno sapevamo quale tipo di auto guidasse. Il rischio era di ritrovarselo a uno sputo. Oppure, senza che lui ci fosse a ridosso, avremmo forse centrato una grossa buca rimanendo bloccati o sbandando, oppure saremmo finiti direttamente in un campo, o peggio. Ciononostante, se fossimo rimasti impantanati lì, dentro la radura e dunque prigionieri? La luna era nascosta da nuvole sottili, le uniche nel cielo. Ma se fossero state l’avvisaglia, a prima vista fintamente innocente, di nuvoloni che avrebbero poi aperto le cateratte? Si sarebbero aperte anche per il nemico, lui, Charles. Be’, avremmo avuto condizioni eque, noi e lui, soprattutto se fosse balzato fuori dal bosco. Avremmo condiviso la prigionia nella radura infangata.
Alina si rimise seduta. Sotto il braccio teneva un plaid e in mano un walkman. Le esposi la cronaca dei miei pensieri, con una domanda: «Charles l’Inseguitore potrebbe essere nascosto a pochi passi da noi?»
«Ehi, Charles l’Inseguitore, sei lì?» chiese lei, girando su sé stessa, per raggiungere con la voce ogni punto del bosco che avevamo intorno e fendendo il buio con la luce della torcia. «Non credo che ci sia».
«Solo perché non ti risponde?»
«Non mi risponde perché non c’è», disse lei, spegnendo la torcia, per oscurare i segni della nostra presenza.
«E tu come lo sai?»
«Se vuoi andiamo in ricognizione qui intorno. Ma nemmeno tu credi che sia davvero qui, acquattato a pochi passi da noi».
«La situazione non mi piace. E non piace nemmeno a te».
«Va bene, questo può essere un pasticcio. Ma qui dentro, intanto, c’è della musica davvero eccellente», disse lei. Mi porse il walkman. WW, lo denominò lei: Walkwoman, così, per riequilibrare un’ingiustizia. Le donne, per protesta, non avrebbero dovuto usare quell’aggeggio. Il WW conteneva una cassetta con alcune registrazioni di sua madre e di sua zia Nancy.
Le batterie erano scariche, il nastro scorreva a malapena e le mie orecchie captarono il verso di un animale notturno. O forse il verso non usciva dagli auricolari ma dal bosco: era Charles che imitava chissà quale animale? «Temo di non avere delle batterie di ricambio», disse lei, dispiaciuta.
«Charles imita bene gli animali notturni?» chiesi. Alina rise. «Non gliel’ho mai sentito fare. Comunque, se fosse davvero qui, non ci penserebbe molto prima di passare all’azione. Insomma si sarebbe già mostrato».
«Magari ci piomba addosso proprio mentre ci troviamo al culmine di una scopata».
«No, nemmeno ci permetterebbe di iniziare. Ma io non rinuncio a causa sua. Tanto più che lui non è qui. E tu che fai? Rinunci?».
Non rinunciai, ma il problema Charles aveva sempre più consistenza. Alina, che mi sedeva accanto, condusse la mia mano fra le sue gambe e strinse forte.
© 2020 Manni Editore
24 novembre 2020