Il nuovo romanzo di Alessandro Barbaglia intitolato Nella balena, edito da Mondadori, arriverà nelle librerie il 19 maggio. Grazie alla casa editrice oggi Satisfiction ne presenta un estratto in esclusiva.
Scrittore e librario novarese, Barbaglia ha esordito col romanzo La Locanda dell’Ultima Solitudine, finalista al Premio Bancarella 2017, seguito da L’Atlante dell’Invisibile, entrambi editi da Mondadori.
Nella balena racconta le storie di Alessandro, detto Cerro e di Herman, due storie lontane nel tempo che però si intrecciano. Alessandro è un uomo solitario che vive con il padre ottantenne Emilio, e Santina, la governante, in una grande villa a Novara. Ha perso sua madre Caterina quando aveva solo due anni e nel tempo anche l’affetto del padre che ha smarrito la memoria e la capacità di amare.
Emilio e Caterina, il suo grande amore, si conoscono quando un’enorme balena imbalsamata è di passaggio vicino al lago Maggiore. Si chiama Goliath, è lunga ventidue metri ed è in tournée per l’Italia e l’Europa negli anni Cinquanta, da quando Giuseppe Erba, impresario teatrale torinese, l’ha acquistata in Norvegia. Ad accompagnarla lungo il viaggio c’è Herman, un sognatore americano innamorato della balena, che diviene la missione della sua vita. Nato dalla Donna Sirena e dall’Uomo Pesce, Herman è figlio del Circo Barnum, un posto di meraviglia dove si esibiscono anche Bird Millman, la poetessa dell’aria, la funambola che ha camminato in equilibrio su un filo tra due palazzi, e l’Uomo Elefante, il lottatore capace di spezzare l’acciaio.
Tutte queste storie e relazioni viaggiano in parallelo per incontrarsi infine nel ventre oscuro di Goliath, perché «le balene sono gli animali che hanno inventato – ben prima dell’essere umano – l’amore». Attraverso una scrittura unica, nitida e delicata, Barbaglia compone un romanzo poetico che viaggia in equilibrio perfetto tra realtà e finzione.
Alice Butera
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Svizzera, 1954
Herman montagne così non ne ha viste mai.
«Alpi» le chiama Giuseppe e a lui sembra uno scherzo.
«Tutto qui?!» È su di giri. «Alpi? In America le avremmo chiamate Il grande gigante di roccia!, I denti del demone bianco!, Le costole taglienti del cielo!. E avremmo fatto pagare un biglietto solo per poterle guardare! Alpi! Che nome piccolo per una cosa del genere.»
Come se papà, mamma o balena, fossero parole lunghe abbastanza per quel che vogliono dire.
Poggia la fronte al vetro del finestrino, le guarda incantato mentre a ogni tornante guadagnano metri.
È il 1954: Ernest Hemingway vince il premio Nobel per la letteratura; una balena di ventidue metri attraversa le Alpi. La radio non dà né l’una né l’altra notizia.
È quasi mezzanotte quando arrivano alla dogana e quella Svizzera è un guaio. Se si sbaglia a parlare, se non si dichiara tutto per bene, si rischia il sequestro del mezzo, si finisce persino in galera. E con un camion lungo trenta metri è dura pensare che ce la si possa cavare con un: “No. Nulla da dichiarare”.
In frontiera la strada si fa pianeggiante, lunga, dritta: una ruga d’asfalto che sembra non finire. E invece finisce, con la sbarra d’acciaio. I lampeggianti delle sirene graffiano la notte; i doganieri ispezionano e controllano ogni veicolo, se è tutto in regola lo fanno passare.
Avanti un altro: ispezionano e controllano. Avanti un altro. Passano al pettine ogni vettura, ogni bagaglio. Ogni cosa. E se qualcosa non va: «Fermo, in guardiola!».
C’è un grosso faro. È un riflettore da carcere. Disegna un corridoio di luce, è come se la notte si prendesse una pausa dove passa lui.
Abbaglia; è il dito dell’Onnipotente in cerca dei peccatori. Intuisce un movimento nel bosco. Ruota a vuoto finché non trova il furbetto: uno stambecco. L’animale, accecato, scappa stordito. Niente di che, è ovvio, ma non sfugge nulla all’occhio del riflettore. Torna sui veicoli, trova il camion. Lo inchioda.
Avanti un altro: «Souvenir». Ispezionano e controllano. Avanti un altro. È così.
Tra poche automobili toccherà a Goliath. Il suo camion è troppo grosso perché ci si possa fidare di una dichiarazione. Bisognerà controllarlo. E poi la sala comando l’ha già indicato col faro. E allora, a passo d’oca, arrivano i doganieri, portano i cani. Nell’aria galleggia un acido odore selvaggio. I pastori tedeschi lo sanno: è mare. Lo abbaiano forte. Segnalano l’intruso e danno l’allarme: quel camion è pieno di mare.
Giuseppe scende dalla cabina, ha paura dei pastori tedeschi, lo spiega, le guardie li trascinano un poco indietro. Non smettono però di abbaiare.
Quindi gli fanno parecchie domande, Giuseppe risponde, compila moduli. Firma. E infine svela la ragione di quell’odore: «Una balena».
E quelli socchiudono gli occhi. Inclinano la testa. Hanno divise grigie, i fucili, gli stivali neri. Persino gli elmetti. Chiamano rinforzi. Arrivano ancora altri cani.
E lui lo dice di nuovo: «Trasportiamo una balena».
Illuminano con una torcia tonda la faccia di Giuseppe, e poi il camion.
«Con quello?» chiedono.
E lui fa segno di sì.
«Spenga il motore.»
Chiamano i colleghi dei dazi. Cercano sul tariffario la voce pesci esotici. Parlottano tutti parecchio. Sono una moltitudine grigia. Uno fa cenno di no con la testa. I cani abbaiano ancora.
«Se lì dentro avete una balena, allora non potete passare» dicono a Giuseppe, gli passano il regolamento doganale.
E la ragione è una sola: in Svizzera è in vigore una legge che vieta l’importazione di balene. Intere. A tranci, volendo, la carne potrebbe anche passare: ma intera no. È una legge scritta, nero su bianco in quattro lingue: italiano, francese, tedesco e inglese.
Quando Herman vede il documento, intuisce che quella è una legge stupida; ma capisce molto di più: capisce che quella stupidità non li riguarda.
«Il divieto è solo per le balene morte» dice.
E lo dice nel cuore delle Alpi. Con intorno la neve. E i boschi. A duemila metri di altitudine. E gli stambecchi che di frodo saltano il confine.
Insomma, difficile pensare che quella legge possa essere per le balene vive.
«Riaccendi il motore» dice, «andiamo via.»
Non è la prima volta che Giuseppe nota gli occhi di Herman. Questa però è la prima volta che gli fanno davvero paura.
«Apri i tendoni del camion. Facciamogli vedere Goliath.»
Herman non gli dà tempo nemmeno di capire. Si gira, dalla cabina scivola nel cassone. Si avvicina alla bocca del mostro. Ed è da lì che glielo ripete.
«Apri i tendoni! Facciamogli vedere la balena!»
E poi ci entra. Nella balena. Nella bocca. Nel ventre.
Le sfiora la pelle fredda e dura. Bianca. Una pelle rugosa come di spessa carta vetrata. E poi il nero, il caldo molle del grembo. Entra.
Giuseppe si fida: apre i tendoni del camion. Inizia a svelare Goliath. Herman è nella sua bocca. Nel caldo. Nella balena.
Sapete cosa fa davvero paura della balena? Che ci si possa entrare. E sapete cosa la rende davvero irresistibile? Che sia facilissimo farlo. E non scherzo. Ora ci entrerete anche voi.
Herman supera i fanoni, scende verso la gola.
Prima in ginocchio: questa è l’unica strettoia difficile da oltrepassare se si vuole andare nel ventre.
E allora Herman sta prima in ginocchio, poi si lascia cadere in avanti. Supino, pancia in alto, scivola con la schiena su quel tappeto secco fino alla base. Herman ci appoggia la testa, vede l’interno del cranio del mostro, le profonde cavità degli occhi infossati, occhi che hanno palpebre, come quelle dell’uomo, occhi che non hanno ciglia, come quelle dei neonati; osserva la base della fronte, e poi due sfiatatoi sulla cima della testa: sono le narici, sono scivolate lassù. L’immensa cavità del cervello. La gola capace di fare centomila suoni in più della voce umana. Ecco il confine del ventre. Herman lo passa.
In cima alle montagne più alta d’Europa, Herman si cala nella grande balena. Raggiunge la coda. La calza come un sacco.
È in dogana che supera il confine. Supera tutti i confini: uomo/animale, vita/morte, meraviglia/orrore. Mostro/Dio. Fondo/cima, mare/montagna, centro/periferia. Passato/futuro. È in dogana che sceglie la sua vita.
Sei milioni di anni fa un’unica scimmia femmina partorì due figlie: una sarà la mamma di tutti gli scimpanzé, l’altra la nostra nonna più anziana. Un passo indietro, è solo così che si va verso la vita: trenta milioni di anni fa un unico anfibio partorì due figlie, una è il mammifero da cui discenderanno scimpanzé, uomini e balene; l’altro è un rettile. Siamo cugini delle vipere: cugini! Gli uccelli discenderanno dai rettili. Hai visto quel rondone? È tuo cugino di secondo grado.
Un altro passo indietro, ancora più dentro la vita: quattrocento milioni di anni fa tutti i vertebrati nuotavano. Sulla terra non c’era nessuno. Tutto quel che accadrà e che ancora deve accadere è dentro il medesimo essere: sei parente di tutto ciò che è ossa. E le ossa sono terra e roccia. Ancora indietro, alghe, batteri, la famiglia si allarga: piante, funghi, meduse. La vita ha un’unica comune origine, andando indietro l’albero converge in un unico punto.
Se sboccia un fiore sei atteso alla festa del suo compleanno. Il tuo biglietto d’invito è la parentela che ti lega a lui: la vita.
Intanto il telone verde del camion si è aperto del tutto. La vedono. I doganieri vedono Goliath. Herman annusa il loro panico, loro sentono che l’abisso è lì, profuma di mare.
Forse nemmeno Herman si aspetta che il suo piano funzioni. Forse vuole solo essere lì, nella balena, mentre li arrestano e l’avventura finisce.
Spinge. Fatto di balena spinge come gli ha insegnato l’Uomo Elefante, spinge con tutto se stesso. Lotta. Spinge con ciò che è: vivo.
Incastrato nella coda della balena la sua forza da gigante è pur sempre un buffetto. Un nulla. Non ha speranze di riuscirci. Funziona. Goliath si lascia vincere dalla lotta di Herman come faceva l’Uomo Elefante, non per farsi inganno, per farsi incanto.
Herman tende gli addominali, muove le gambe, fa forza con i pettorali e con il collo. Allarga le braccia strette dalla coda e dal fondo del ventre.
E lei balla con lui. Lo accoglie. E si muove delle sue spinte, forte, sempre più forte. Di colpo i nervi di Herman sono d’acciaio. E la balena è sua: scoda.
Scoda.
SCODA!
Si muove tutto dentro la coda e la coda fa tremare il camion e quel movimento rigido che fa, tanto rigido, tanto forte, trasmette quel tremore dalla coda al ventre, dal ventre alla testa, dalla testa allo sfiatatoio della balena. Nessuno può credere ai propri occhi. Si alza nel cielo di Svizzera uno spruzzo della formaldeide di cui la balena ha ormai piene le vene; violento esce dallo sfiatatoio del cetaceo, altissimo, i nervi scattano, fanno sì che si alzi tra le nuvole di mezzanotte uno schizzo d’oceano di nove metri di altezza.
SONO NOVE METRI DI SOFFIO DI BALENA! In Svizzera! Sulle Alpi!
Un getto caldo si alza nel cielo, uno starnuto d’onde si nebulizza in un esercito di goccioline, ricade. Sembra pioggia. Sa di mare. Di più: il riflettore ci mette del suo, inquadra lo spruzzo di balena: è da lì che nasce l’arcobaleno. È per quello che si chiama così: arco-baleno, il nome l’hanno scelto i marinai quando per la prima volta hanno visto una cosa del genere! Arcobaleno! A duemila metri di quota è arrivato il soffio di pace dopo il diluvio universale.
I cani di colpo si tacciono. E si sente un fischio. Un fischio terribile di balena. Un fischio di sforzo. Un fischio d’asma. È Herman, ma la cassa toracica di Goliath amplifica ogni cosa come la pancia di una chitarra.
Giuseppe è uomo di teatro, a questo punto non può mancare il colpo.
«Come fate a dire che questa balena è morta?» dice. «È viva! Guardate come si muove! Guardate che arcobaleno le esce dal dorso!»
«Mai visto un pesce così grosso. In montagna per di più!» si sente ribattere dai doganieri.
«Ma quale pesce! La balena è un mammifero.»
Un altro fischio. La balena fischia. Herman accartocciato nello sforzo non sa niente di tutto questo. Sente le forze finire. Sviene. La balena smette di ballare.
Giuseppe sa cos’è successo: il sistema nervoso di una balena è gigantesco. Le contrazioni post mortem possono arrivare anche a giorni di distanza dal decesso. Forse il freddo, forse le vibrazioni del camion. Forse il caso. Giuseppe pensa alla fortuna, chi vuole dargli ragione si accomodi. Sappia però che non ha ancora capito cosa lega Herman a Goliath.
«Be’ ma allora se la balena è viva…» I doganieri leggono il regolamento, lo leggono tutto, più volte.
Vietato importare in Svizzera balene morte.
Giuseppe dirige il camion verso il confine.
I cani abbaiano di nuovo. Ma alla frontiera non sanno in base a che cavillo fermarlo.
«Se è viva…»
Si guardano. Confabulano. Anche il faro si fa pensieroso.
«Se è viva che ci possiamo fare…»
È il 1954, Marilyn Monroe sposa Joe di Maggio. È il 1954, la televisione arriva anche in Italia. “Signore e signori: buonasera” dice. È il 1954.
«Se è viva: buon viaggio» dicono i doganieri alla fine.
È il 1954: Goliath marcia verso Torino. Vive la vita di Herman.
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