“Bisogna aspettare la notte per sentire la voce di una città che piange. Bisogna aspettare la notte per incontrare un certo tipo di deragliati eroi, per vedere demoni e fantasmi circolare liberamente per le strade. E guarda caso eroi, fantasmi e demoni sono esattamente le creature che più attraggono Springsteen. Basta sfogliare le sue canzoni, una dopo l’altra, per scoprire una verità inconfutabile: a dispetto di quell’abbagliante immagine da guerriero di ogni battaglia, da lucifero portatore di luce, la stragrande maggioranza delle sue canzoni è ambientata di notte. Anzi, interi dischi sono ambientati di notte. Dunque la sua arma nascosta è l’ambiguità, l’ingannevole e onirica opacità della notte, perché solo lì può parlare il linguaggio dei sogni, liberare i demoni come animali selvaggi tenuti troppo a lungo in gabbia, è il momento in cui la realtà si fonde e confonde coi suoi simboli, è il momento in cui i fantasmi reclamano al mondo dei vivi il loro diritto di cittadinanza”.
Inizia così THIS HARD LAND. Sulle strade di Springsteen, nelle librerie da oggi per Jaca Book con testi del critico musicale Gino Castaldo, e fotografie di Daria Addabbo, che raccontano più di mille colori, di mille testi, di mille accordi le anime al neon cantate nell’epica narrativa e cantautoriale di Springsteen. Non la solita biografia ma un libro di suggestioni, di sogni infranti; non “on the road” ma contro le luci dei motel, delle loro ombre che proiettano protagonisti persi tra gli accordi di Woody Guthrie, di John Steinbeck e Flannery O’Connor. Perché, come ripete spesso, “La mia musica ha sempre voluto la distanza tra la realtà e il sogno americano”.
Di seguito il testo in anteprima di Gino Castaldo.
I’m working on a dream
and our love will make it real someday
(Working on a dream)
Poche ore dopo l’attacco terroristico che cancellò per sempre ogni possibile certezza d’invulnerabilità del mondo occidentale, Springsteen era in auto, stava andando a prendere i figli a scuola. Al semaforo si affiancò un tizio che abbassò il finestrino e gli disse: «Ora abbiamo bisogno di te». Fu così che Bruce si risvegliò, rinacque per la centesima volta, e si rimise all’opera.
Pochi mesi dopo uscì The rising (2002), il primo disco dopo sette anni, l’intervallo più lungo di tutta la sua carriera. Era anche il primo in studio con la E Street Band dopo 18 anni. Ma del resto sono quelli i momenti in cui ci si stringe intorno alla famiglia, e quando si era rimesso in tour col gruppo, tre anni prima, aveva scritto un pezzo per l’occasione: The land of hope and dreams. La vita collettiva, di cui una band è sempre e comunque una rappresentazione, deve rimanere un luogo di speranza e sogni.
I sogni che l’11 settembre sembrava aver cancellato per sempre. Nella torre che stava per crollare, Springsteen aveva colto l’incredibile meraviglia umana dei pompieri che salivano andando incontro al fuoco mentre tutti gli altri cercavano di scappare: «up the stairs, into the fire, may your strength give us strength, may your hope give us hope», canta in Into the fire, su per le scale, dentro al fuoco, possa la tua forza darci forza, possa la tua speranza darci speranza, come fosse una litania, una preghiera. Aveva trovato nuovi eroi del sogno americano da contrapporre ai cieli vuoti di Empty sky, alla rabbia, alla voglia di vendetta, all’incubo di Paradise, il menzognero paradiso del kamikaze, la più colossale e nefasta bugia dell’era contemporanea che spinge militanti fanatici a buttare via la propria vita, uccidere altre vite, in cambio di una ricompensa nell’aldilà. Aveva trovato dei valorosi pompieri che al contrario rischiavano la propria vita per salvarne altre.
Anche quando alla fine del disco racconta la sua «city of ruins», la valle di lacrime della desolazione, non può fare a meno di incitare chiunque sia in ascolto, che siano i suoi compatrioti di Asbury Park, per i quali originariamente era stata pensata la canzone, oppure il mondo intero atterrito dalla distruzione delle torri gemelle: «come on rise up, come on rise up, rise up, rise up…». Non c’è mai sconfitta definitiva, anche quando si è perso tutto, finché c’è vita c’è speranza di redenzione, e allora su, andiamo, sollevati, sollevatevi, ma è come se lo dicesse a sé stesso, sono i suoi demoni a incalzarlo, l’inconfessabile depressione, risorgi Bruce, devi farlo ogni sera, e per questo ogni concerto è una battaglia senza quartiere: o si vince o si muore.
Un concerto, a pensarci bene, è sempre un sogno, ma anche quello può diventare una bugia («is a dream a lie if it don’t come true or is it something worse», un sogno se non si avvera è una bugia, o qualcosa di peggio, The river), se non si pulisce la ruggine che va a formarsi ogni giorno sugli ingranaggi della passione.
I sogni devono avverarsi per non diventare il veleno che corrode le nostre vite («you wake up in the night with a fear so real spend your life waiting for a moment that just don’t come», ti svegli di notte con la paura di dover aspettare un momento che non arriva, Badlands).
I sogni vanno protetti («Wendy let me in […] I wanna guard your dreams and visions», Born to run).
I sogni vanno seguiti, fino in fondo, come diceva in Follow that dream, a costo di cantare canzoni di altri come questa che era di Elvis, anzi era la sua canzone preferita di Elvis. E lo fa di nuovo con Dream baby dream, incisa da un gruppo dal terrificante e poco sognante nome di Suicide.
La sua versione toglie al pezzo ogni sotterranea malizia, anche se di sicuro qualche residuo dell’amarezza dell’originale sopravvive anche nell’innocenza di un videoclip che diventa il suo più esplicito e commosso tributo alla comunità dei fan. Ci sono immagini e narrazioni risultano sempre sfocate, troppo luminose o troppo scure, un disco del crepuscolo che in quanto terra di mezzo tra il giorno e la notte è la terra priviliegiata dei sogni. Bruce è solo, come si è soli nei sogni, e va attraversando terre e paesaggi fluttuanti, archetipi dell’immaginario collettivo e di quello personale, viaggia su macchine irreali e frequenta bar popolati di fantasmi. Come in un sogno incontra la sua adolescenza, rivede la California pop di quand’era ragazzo, rimpiange le possibili vite che tanti modi di occuparsi dei sogni degli altri, grandi o piccoli che siano. A volte basta poco, u piccolo gesto, basta utilizzare un piccolo, romantico pezzo dei Drifters, Save the last dance for me, chiedere alla E Street Band di essere accondiscendente, diventare per un attimo un’orchestrina da balera, far salire una donna sul palco e ballarci insieme sapendo che per alcune di loro potrebbe essere «il» momento indimenticabile della vita. D’altra parte i sogni non sono solo le nostre aspirazioni, i sogni ci sono sempre, tutte le notti. Quando dormiamo noi sogniamo, e in genere, anche se non lo sappiamo, sogniamo la verità. Bruce lo impara da grande, quando si decide ad andare da uno psicanalista e comincia a considerare i sogni come una parte rilevante, oscura ma del tutto naturale, della vita. Grazie alla psicanalisi inizia a capire i sogni, a decifrarli, infine a lavorarci. Nasce Working on a dream (2009) in un lampo di ottimismo verosimilmente dovuto alla presidenza Obama, un evento che aveva tutte le sembianze di un sogno che si avvera. Ma nel frattempo aveva finalmente acquisito il sogno come un linguaggio e comincia a provarne gli effetti nelle sue canzoni, passo dopo passo: entrano simboli e visioni, orizzonti lunghi, paesaggi interiori, e continua fino a quando può permettersi il totale abbandono.
Western stars è finalmente un sogno, dall’inizio alla fine, costruito su una filigrana trasparente attraverso la quale non ha potuto vivere, vede sé stesso specchiarsi nelle nuvole e nei paraurti cromati delle automobili. Chiede una pausa dal furore. Si illude di poter sfuggire alla sua missione: ho fatto, ho dato, sembra dirci, ora posso concedermi un incolpevole languore, senza doveri, senza obblighi, senza dover rendere conto, senza dove pagare il prezzo dell’onore. Posso riposarmi, guardare di notte le western stars, le stelle dell’Occidente, senza pensare più a nulla. Si può essere liberi, alla fine.
Gino Castaldo, fotografie di Daria Addabbo – This Hard Land. Sulle strade di Springsteen (Jaca Book, 2019, pp. 240, euro 50)
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