Entra nel primo ricordo che trovi, come in una stanza.
Stai a vedere che cosa succede e prendi appunti.
Giorgia, la protagonista femminile, l’unica vera protagonista di questo straordinario romanzo d’esordio di Claudia Petrucci – L’esercizio (La Nave di Teseo) da oggi nelle librerie – si tuffa nei ricordi dove coesistono colori, odori e spessori di certi tessuti che sembrano segni cuciti addosso. Giorgia infatti porta impressa sulla pelle una cicatrice estesa, rimasta sensibile. Sente profondamente e ricorda.
Ma non è la sola a ricordare. Anche Filippo, suo fidanzato, uno dei protagonisti maschili della narrazione (l’altro è Mauro, maestro di teatro di Giorgia dei tempi della scuola) in un diverso momento del romanzo, ricorderà per filo e per segno le abitudini di Giorgia, le circostanze esatte che hanno permesso il loro incontro e tutto quanto accaduto prima di perderla.
Perderla sì, perché Giorgia, che prima della loro relazione ha sofferto di crisi psicotiche, al verificarsi di una precisa circostanza ha una nuova fortissima crisi che la fa venire meno a se stessa.
Giorgia in realtà si è persa molto tempo addietro, molto prima di iniziare la sua storia con Filippo, di incontrare di nuovo Mauro, molto prima che iniziasse a definire la malattia “il mio problema empatico con le persone”, quelle persone che lei ha sempre sentito dentro, ascoltandole respirare e muoversi con la loro presenza ingombrante, senza mai riuscire a strapparsele dal petto.
Solo il teatro ha il potere di accendere veramente la scintilla racchiusa nell’anima inquieta di Giorgia, ma incendiare un’anima irrequieta può diventare un esercizio rischioso se l’attrice perde di vista il confine tra realtà e finzione. Filippo e Mauro si ritroveranno a certo punto della storia ad essere complici e avversari allo stesso tempo, sedotti da un gioco pericoloso per “riconquistare” Giorgia: scrivere il copione per la sua vita perfetta.
Claudia Petrucci con questo romanzo d’esordio, già in corso di traduzione in Francia e in Germania, pone l’accento su molti temi importanti come il confine ambiguo tra amore e possesso, la frustrazione per un lavoro che non è quello desiderato (Filippo è laureato in Lettere e ha dovuto rinunciare al giornalismo per dedicarsi al bar dei genitori) e i problemi con cui quotidianamente i giovani sono costretti a fare i conti mentre cercano di realizzare i loro sogni senza perderli per strada, fiaccati da una quotidianità che non lascia scampo né spazio alcuno all’immaginazione.
Ma il tema più importante è quello della follia che permea tutto il romanzo e in certi passaggi trasporta il lettore in una dimensione fluida dove i confini si perdono e dove è facile chiedersi dove si nasconda la verità. Quell’unica verità che si vorrebbe conoscere è troppo brutta spesso perché possa guardarsi dritta in faccia e allora si devono trovare versioni più fantasiose che consentano di vivere sereni forse, oppure, come direbbe Mauro, il maestro di teatro di Giorgia: “quello che tutti facciamo è diverso dall’essere sinceri, è selezionare le verità accettabili”.
Un romanzo d’esordio potente, intenso e autentico, che con una scrittura travolgente affronta temi complessi con rispetto e profondità.
Di seguito un estratto del romanzo concesso da La Nave di Teseo.
Silvia Castellani
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Non c’è nessuna distinzione tra quello che crediamo di conoscere e ciò che conosciamo: quello che crediamo di conoscere è tutto ciò che conosciamo. Mauro dice che è una questione di semplificazione, semplificazione fino all’osso, una strategia che applichiamo senza averne coscienza. Non siamo in grado di tollerare il peso delle infinite possibilità – semplifichiamo, semplifichiamo –, scegliamo una possibilità che intuiamo adatta a noi – semplifichiamo, semplifichiamo – di tutte le infinite possibilità, nell’unica arbitrariamente scelta noi crediamo. Ci crediamo fino alla negazione dell’evidenza, su quell’unica costruiamo operosamente, e i più capaci fabbricano per venti o trent’anni, alcuni riescono a edificare anche su scelte arbitrarie già morte insieme a coloro che le hanno compiute; scelte arbitrarie fortunate possono riprodursi e ingrandirsi e diventare città, imperi, giganti finanziari.
La mia scelta arbitraria è stata Giorgia. Giorgia è stata la storia che ho raccontato a me stesso, in una narrazione ininterrotta, inconsapevole. Avevo costruito intorno a lei una di dimensione provvista di leggi fisiche, un mondo itinerante che la seguiva dappertutto – esondando nel passato, dilatandosi nel futuro. Se non fosse successo quel che è successo, lei sarebbe ancora lì, io potrei tornare a nascondermi in ciò che credevo di conoscere, che era tutto ciò che conoscevo: un istante uguale in eterno. Irripetibile. Irriproducibile.
Io non posso tornare, la mia creazione mi è stata tolta. Come dice Mauro, Giorgia sarà d’ora in poi, per sempre, per me, un esercizio.
Mi sono spinto molto in là, con il mio esercizio, così oltre che mi sembra di poter ricomporre tutto dal principio.
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Il principio si consuma nel capannone medio-grande di una catena della grande distribuzione, in via Pitteri, poco lontano dall’appartamento dove io e Giorgia conviviamo. Nei capannoni di queste catene tutto è organizzato allo stesso modo, le mappe delle corsie, la disposizione dei generi alimentari e non alimentari, anche i prodotti sono sempre uguali a se stessi e stoccati in quantità incomprensibili poiché eccessive. In questa specie di luoghi, ovunque, tutto è identico – le planimetrie, i beni, i consumatori – e da quelle diaboliche somiglianze derivano una serie di confusioni: non si capisce dove ci si trova, quando si crede di saperlo la piantina ha una deviazione minima che sposta il pane fresco dall’angolo a sinistra, come in Certosa, a quello di destra, come in via Rubattino – perché è qui che siamo, vero? – e tutto crolla, si provano spiacevoli sensazioni di spaesamento.
Giorgia odia i supermercati, sa che li odio anche io, lei li odiava già prima di iniziare a lavorarci, io solo da quando l’hanno assunta. Eppure l’abbiamo desiderato come un figlio, questo supermercato, l’abbiamo sorvegliato a lungo nei mesi travagliati della sua disoccupazione, ci siamo chiesti dove ci avrebbero portati i suoi colloqui in tre step.
Giorgia ora sa com’è lavorare in un posto che da cliente ha sempre cercato di evitare: le fa schifo, il supermercato. In tutti i supermercati tutto fa finta di essere uguale e questo rende le persone infelici; per i primi novantuno giorni, Giorgia li ha guardati tutti in faccia, centinaia di volti che scorrevano insieme al nastro trasportatore, centinaia e centinaia, tutti giallastri sotto le luci tutte giallastre. Non c’è nessuno felice di fare la spesa, lei ne è sicura, nemmeno le coppie con il gelato e il lubrificante riscaldante, anche loro iniziano a essere un po’ felici solo quando si allontanano da lì.
Giorgia definisce la psicosi che le appartiene il mio problema empatico con le persone.
“Tesoro, per favore, tieni le mani giù da lì.”
La cliente è una donna sui quarantacinque, supera con dignità la prova delle illuminazioni fredde e del lunedì pomeriggio. La bambina, circa cinque anni e due trecce scure, non sposta le mani dal nastro trasportatore: fissa Giorgia che fa sci- volare i prodotti sull’occhio elettronico. Tra le dita, con le unghie tagliate dritte da qualcun altro, si allargano macchie di pennarello verde. Giorgia vede nelle macchie una scuola e nella scuola la bambina che ha tutti i vestiti giusti al posto giusto e si confonde tra i coetanei, una cosa che a lei non succedeva spesso, per via del peso.
© La Nave di Teseo, 2020