Daniele Garbuglia è uno scrittore marchigiano conosciuto al pubblico per La vita privata (2016), Musica leggera (2009), Home (2006) editi da Casagrande, e Fagotto e Sparafucile (1998) per Pequod. Torna in libreria dal 21 maggio con il romanzo Fare fuoco edito da SEM grazie a cui oggi presentiamo del libro un estratto in esclusiva.
Sono gli anni Settanta in Italia, gli anni di piombo, quelli in cui Garbuglia ambienta la sua storia. Un ragazzo entra a far parte di una piccola cellula terroristica delle Brigate Rosse, composta da altri due giovani, Anita e il Rosso. Questi i loro nomi di battaglia; anche il protagonista ne sceglie uno, il nome di suo nonno Orlando, per unirsi alla lotta armata che lo ha portato ad abbandonare il suo tranquillo paese sul mar Adriatico per raggiungere una grande città del Nord. Qui avviene il suo battesimo del fuoco, la prima “pura azione” che sarà un breve apprendistato per le prossime.
In una torrida mattina d’estate, il loro “obiettivo” esce dal portone di un palazzo. La pistola del Rosso si inceppa, così è Orlando che deve sparare. Mira alle gambe del giornalista e svuota il caricatore. I tre si allontano subito su un’auto rubata, che abbandonano in un quartiere residenziale; si separano e ognuno tornerà a casa prendendo strade diverse.
L’appartamento che dividono si trova in periferia; è il loro quartier generale, il luogo dove si rifugiano, dove studiano e pianificano i movimenti delle loro prossime azioni, dove vivono insieme da estranei. Escono soltanto per comprare i giornali e le sigarette, buttare la spazzatura e fare la spesa, rigorosamente in posti sempre diversi perché non devono “creare familiarità con nessuno”.
È questo che ha voluto Orlando, “una vita da poter scegliere e non solo subire”, “lottare in prima persona rischiando tutto, persino la vita”, secondo le sue idee di giustizia e uguaglianza che lo muovevano nelle prime azioni con gli amici e che ora lo hanno condotto a una vita clandestina.
Ma “quella che era stata solo una parola, pericolo, pericolo, pericolo, poteva diventare realtà” e la continua paura di essere scoperto diventa così sempre più concreta finché l’attentato contro un giovane sindacalista segna il punto di non ritorno.
La scrittura di Garbuglia è essenziale, scorre fluida dividendosi tra il racconto della vita quotidiana della cellula terroristica e i ricordi del passato di Orlando, presentando dei personaggi solitari e distaccati, che sognano la rivoluzione armata senza rendersi conto che è solo una disastrosa utopia.
“Ciascuno – pensava in quel momento, ma più che un pensiero era un delirio – riempie le giornate di cose pur di soffocare il sentimento di vuoto e inutilità che la vita è.”
Un romanzo potente e intenso, che obbliga il lettore a fare i conti con il male e la violenza, portandolo a riflettere su un periodo buio della storia italiana recente.
Alice Butera
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Guidava un motorino blu scuro e aveva il foulard viola, come d’accordo. Un foulard con i fiori chiari indossato a mo’ di sciarpa. Era passata lei a prenderlo in stazione il giorno dell’arrivo. L’aveva riconosciuta subito, in piedi vicino al motorino parcheggiato davanti alla scalinata d’ingresso, le guance arrossate per l’aria che aveva preso venendo in stazione. Si era avvicinato fingendo di passare lì per caso.
«Hai una sigaretta?» le aveva chiesto.
Non aveva capito bene: lui aveva parlato sottovoce per la tensione e perché era stato zitto tutta la notte, durante il viaggio. A un tratto gli era venuto il dubbio. E se non fosse lei? Non poteva rischiare. La ragazza era molto attenta, notò, si girava di continuo come cercando qualcuno tra la folla, in realtà teneva d’occhio la situazione per capire se c’erano pericoli. Magari era un infiltrato riuscito a farsi accettare nell’organizzazione.
Aspettava, senza staccarle gli occhi di dosso, mentre lei tirava fuori l’accendino e la sigaretta dal pacchetto. Passarono alcuni minuti. Uno di fronte all’altro fingevano di guardarsi intorno interessati mentre fumavano.
Lei lo fissò negli occhi. «Qual è il tuo nome?» Quella era la domanda, finalmente. La domanda che tanto aspettava. Aveva esitato prima di rispondere. Stava passando all’improvviso da un’idea astratta, pensata e ripensata, alla realtà. Le istruzioni che aveva ricevuto al telefono le aveva imparate a memoria, come una lezione da studiare per il giorno dopo. Ma ora che le applicava davvero, gli sembrava così diverso.
E soprattutto non aveva ancora deciso il nome. Pensò a quello di suo nonno, che gli era sempre piaciuto, dava un senso di pienezza, di solennità, di sicurezza, sentiva che stava per prendere un nome importante. Da quel momento sarebbe stato il suo nome, nessuno avrebbe saputo nulla del passato. Poteva essere pericoloso, in caso di arresto, conoscersi con il vero nome, si rischiava di tradire i compagni contro la propria volontà, magari costretti sotto tortura. A questo ora non pensava. Era ansioso di rispondere subito.
Orlando.
Orlando. Lo ripeté prima timido poi ad alta voce, come per prendere confidenza con la nuova identità. Era un nome nuovo per lui, ma antico allo stesso tempo. Il nome di un uomo che aveva lavorato per tutta la vita nei campi, senza mai alzare la testa. Stava iniziando la sua nuova vita anche per lui, in sua memoria. Era come se l’umanità migliore per la quale lottava prevedesse non solo un impegno per il presente e il futuro, ma anche un risarcimento per il passato.
Lei aveva detto il suo nome, Anita.
Provò a sorriderle, in segno di intesa. «Dove andiamo adesso?»
Lei era già sul motorino, pronta a partire.
«Un’altra sigaretta?» aveva chiesto imbarazzato, non sapeva cosa dirle. Si strofinò le mani, sempre più veloce, davanti agli occhi. Sentiva l’odore della pelle e il calore. Aveva aperto e chiuso i pugni più volte.
«Dobbiamo andare, è tardi.»
«Tardi per cosa?»
D’improvviso si sentiva spaesato: non aveva più il suo nome. Ma l’aveva mai avuto? pensò sorridendo. Era un’altra persona, ora. Provò una vertigine, come se tra prima e dopo ci fosse una terra senza nome, un luogo dove non esisteva più. In quell’intervallo si era confuso per un istante che non aveva tempo, era stata una nuova nascita.
E chi era la ragazza in motorino? Aveva ricevuto indicazioni precise fino all’arrivo, ma ora non sapeva più cosa doveva fare. Lo accompagnava solo da qualche parte? Era anche lei alle prime armi o aveva esperienza?
Fuori dalla stazione c’era un rumore forte e continuo, il sovrapporsi di tanti rumori. Appena sceso dal treno sembrava disorientato sotto la pensilina lunghissima che finiva nella stazione in fondo. E all’uscita, nell’atrio, c’erano delle volte tanto alte come non ne aveva mai viste prima, solo in chiesa c’erano soffitti così. E i rumori assordanti del ferro che stride contro altro ferro, i freni del treno sui binari. Era meravigliato di tutto. Un viavai di facchini portabagagli, uno basso tarchiato che offriva gridando il suo servizio, un altro che si asciugava di continuo la fronte sudata con un fazzoletto a scacchi. Una donna con il vestito a fiori e una grossa valigia stringeva a sé la bambina assonnata, avrà avuto quattro cinque anni. C’era anche una forte puzza nell’aria che non sapeva spiegarsi da dove venisse. Arrivando da un piccolo paese, non aveva mai visto così tante macchine insieme, autobus, camion, motorini. Era una giostra continua, interminabile. E quei viali così larghi con i palazzoni alti e file di alberi davanti. Tutto era nuovo per lui.
Anita lo fece salire dietro. Orlando aveva con sé solo un piccolo zaino e la sacca Diadora.
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