Elisabeth Jane Howard, scrittrice prolifica – ha scritto 15 romanzi – autrice tra gli altri de La saga dei Cazalet in cinque volumi tutti pubblicati da Fazi Editore, torna oggi nelle librerie con Perdersi sempre per Fazi (con la traduzione di Manuela Francescon e Sabina Terziani) di cui presentiamo un estratto in esclusiva. Inedito in Italia, è un romanzo “cosparso di tocchi delicati ma al tempo stesso impossibile da mettere giù, come un thriller” per usare le parole che The Time gli ha dedicato, un romanzo incentrato sul profondo scavo psicologico nella mente di un uomo che mette in atto un vero e proprio plagio. Si tratta di Henry Kent la cui esistenza è stata segnata apparentemente dalla crudeltà delle donne. Rimasto orfano di madre da bambino, cresciuto con un padre anaffettivo e una matrigna crudele incontra, già ultrasessantenne, Daisy Langrish, una drammaturga di successo che conduce la propria vita in solitaria in un cottage di campagna appena acquistato. Lì è presente un giardino di cui Henry assunto come giardiniere si prende cura. A poco a poco con le sue premure riuscirà a insinuarsi nelle grazie di lei, fino a che la tensione tra i due diventerà altissima e Daisy, nonostante i moniti della figlia e degli amici, non sarà più in grado di vedere bene chi in realtà si trova al suo fianco. Daisy è tratteggiata come donna bisognosa d’affetto e comprensione, già “vittima” di rapporti conclusisi in malo modo tra cui quello con l’ex marito, l’affascinante attore Jason Redfearn che non ha il coraggio di affrontarla a viso aperto dopo essersi innamorato di un’altra donna, un uomo che forse si è semplicemente infatuato dell’amore che lei provava per lui, che l’ha tradita e lasciata per interposta persona mentre Daisy si sentiva “come Euridice, nel senso che lui non voleva guardarla, perché per il resto non c’era più speranza e non avrebbe fatto nessuna differenza se l’avesse guardata o no”. E’ su questo terreno psicologico che Henry potrà muoversi e diventerà facile per lui architettare un piano per introdursi nella quotidianità di Daisy, un piano preparato con una meticolosità che lascia il lettore con il fiato sospeso. L’autrice in quest’opera si mette a nudo raccontando la storia di una donna che si lascia irretire da un truffatore: un’esperienza tragica vissuta realmente, narrata con commovente sincerità. Uno scavo psicologico dentro una mente subdola condotto con tale maestria da incollare il lettore alle pagine, fino all’ultima riga.
Silvia Castellani
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Di seguito l’estratto da Perdersi.
Quella sera, mentre finivo un avanzo di pasticcio di carne e rognone, feci un bilancio della mia situazione e mi lasciai prendere dallo sconforto: sessantenne, a carico dello Stato, senza fissa dimora (o sul punto di diventarlo: i proprietari mi avevano annunciato per lettera che sarebbero tornati prima del previsto), senza una donna, o qualcuno che mi tenesse compagnia. Come avevo fatto a ridurmi così? Se ripensavo alla mia giovinezza e a quanto mi fosse sempre stato facile attirare l’interesse delle ragazze che interessavano me, mi sembrava incredibile che avessi finito per restare solo. Donne di tutte le età avevano capitolato di fronte alle mie attenzioni. Se avessi sposato Daphne sarebbe andata diversamente? E se non avessi sposato Hazel forse il successo mi avrebbe arriso? Ogni volta che avevo avuto fortuna, non era durata più di qualche settimana, qualche mese a dire tanto. Non capivo perché, pur essendo dotato di un talento raro rispetto a molti altri uomini, non avessi mai goduto di quelle comodità emotive e di altro genere di cui la mia natura aveva tanto bisogno. È pur vero che diversi anni fa, all’epoca di Daphne, le mie prospettive e ambizioni erano assai superiori a quelle di adesso. Lo so, chi si loda s’imbroda, ma ero proprio un bell’uomo. Ed ero anche intelligente. Alle superiori, la mia professoressa d’inglese mi disse che dovevo continuare a studiare: se mi fossi impegnato avrei ottenuto una borsa di studio per l’università. Ma Daphne ci mise lo zampino, seguita – fortunatamente, come compresi in seguito – dalla guerra. In realtà fu mio padre a convincermi – più con le cattive che con le buone – a imparare il suo mestiere, anche se per me la professione di giardiniere rimane servile e carica di uno stigma che neppure un esercito di signore altolocate di mezza età in stivali di gomma verdi potrà mai cancellare. Per quanto blaterino di rose antiche a cespuglio e giardini bianchi, c’è sempre qualcun altro che vanga, che concima, che pota le siepi, che dirada e invasa e svolge una miriade di altri compiti ripetitivi e perciò stancanti. Quando ero ragazzo mio padre mise una buona parola per me – come diceva lui – e così mi è toccato fare questo lavoro. Poi ci mettevo un’eternità a lavarmi le mani per rendermi presentabile e poter uscire con Daphne.
Quella sera, uscendo dalla cucina con una tazza di caffè solubile, mi chiesi pigramente cosa avrebbe pensato Daphne – e tutte le altre, ovvio – se avesse visto come vivevo. Osservai il soggiorno con occhio critico. La vita domestica non mi ha mai attirato (uno che non riesce a trovarsi una donna che pulisca la casa e si prenda cura di lui non ha il diritto di definirsi un vero uomo), ma dovetti riconoscere che mi ero davvero lasciato andare: mi decidevo a lavare le stoviglie sporche solo quando non c’era più nulla di pulito. Chiunque abbia dovuto riempire la cisterna di una barca e poi scaldare l’acqua sul fornello ogni volta che ne aveva bisogno, capirà cosa voglio dire. Quell’autunno avevo cominciato a mangiare sulle pagine del «Sunday Times» e a bere sempre nella stessa tazza macchiata di tannino, o direttamente dalle lattine. Nel soggiorno e nell’angolo cucina c’erano montagne di cartacce, briciole e schizzi rinsecchiti di Guinness, marmellata di fragole e quant’altro. Il piccolo tappeto era lurido, gli oblò opachi per i fumi della paraffina e la condensa. Le lampade a olio si erano ricoperte di morchia nera, generata dallo stoppino non tagliato, e la cucina faceva ribrezzo. L’unica parte della barca che mantenevo pulita era la toilette (lo squallore in bagno non l’ho mai sopportato). I libri erano ricoperti da una patina di polvere mai smossa. Mi rendevo conto di tutto questo perché ogni volta che rientravo e aprivo il portello della cabina la puzza di paraffina, muffa, vestiti sporchi e tabacco mi aggrediva le narici. Se mai avessi trovato una donna, pensavo, le manovre di seduzione sarebbero avvenute sul suo terreno, non sul mio. Sono capace di elevarmi sulle difficoltà materiali, ma ciò non significa che obblighi gli altri a fare lo stesso. Non si tratta di priorità: per me l’amore è sempre l’unico fattore decisivo.
E l’ho perso ancora una volta! Strano come la mente si tenga alla larga dalle realtà insopportabili e cerchi rifugio nei dettagli più banali del passato, in frammenti inutili di ricordo o in congetture su ciò che sarebbe stato se un particolare aspetto secondario fosse stato diverso. Qualsiasi cosa pur di proteggerci per qualche secondo da una sofferenza atroce, anche se so che a lungo andare il dolore si affievolirà fino a scomparire. Immagini di lei scorrono nella mia mente con una muta intensità che mi spinge a gridare; ma pian piano la ripetizione (strano come il ripetersi sia il movimento principale della memoria) degenererà in un familiare dispiacere. Per ora la perdita è troppo recente per poter pensare che il dolore diminuirà. E il peggio è che io, in assoluta coscienza, non voglio che diminuisca: mi ci aggrappo come se fosse l’ultima occasione di provare un sentimento qualsiasi prima che si insedi la grande glaciazione della senilità che mi renderà un vegetale. E ne ho visti di vecchi dallo sguardo vuoto, la bava agli angoli della bocca mentre le mascelle biascicano senza sosta, e le mani, con le vene in rilievo e la pelle come cartapecora maculata, che lisciano capelli immaginari e abiti lisi. Ormai temo la vecchiaia molto più della morte.
© 2020 Fazi Editore
08 ottobre 2020