Legno Verde è una di quelle storie che avrei probabilmente raccontato agli amici del mio quartiere. Parla di ragazzi e di un mondo che non c’è più. Di una Taranto anni settanta dove la vita di un adolescente di un rione popolare era una continua avventura a basso costo. C’era molta violenza, sia familiare che istituzionale. E c’era un che di magico nel guardarsi intorno anche se la prospettiva non andava oltre i 200 metri. Il balcone di fronte era un mondo inaccessibile, le donne mature che incontravi dal fruttivendolo un mito, i padri aguzzini una mina vagante. Il protagonista, l’io narrante, Umberto Babilonia è uno del quartiere. Ha 12 anni e l’ironia tipica dei ragazzi nati in libertà vigilata, una sorta di scriteriata cattività dove si cresce da soli seppur attraverso un’educazione fatta di pugni e schiaffi. Se il padre lo riempie di botte, se gli insegnanti gli riservano un trattamento da correzionale e se gli amici lo omaggiano per le sue genialate a lui “niente ci fa” perché in nuce è uno dei re dello sberleffo e nemmeno davanti ai drammi più profondi perde il senso della battuta e dello sfottò. Solo davanti ad Alma, davanti a quel senso di amore adolescenziale, troverà pane per i suoi denti.
La vicenda nel suo sviluppo è semplice. Un ragazzino vive a Taranto nel rione Italia e va a scuola in un istituto salesiano. Ha appena concluso una storia con una sua coetanea e passa le giornate con gli amici e in classe dove insegnanti nevrotici alzano le mani a ogni minima occasione. In casa Umberto se la vede con una madre vittima e un padre violento. Ci sarebbero anche una zia signorina ricca e spilorcia, un nonno, un ragazzo dell’1899 che trascorre il tempo a piangere i compagni caduti in trincea e bere anice e tutto il parentado che si riunisce la domenica per litigare. Umberto gioca nei giovanissimi di una società calcistica tarantina e nutre una smodata passione per una donna del quartiere che di anni ne ha 40. Il codice del ragazzo è quello del quartiere, sfrontato, da duro in erba, dissacratorio, fatto di uno slang contaminato e tutto fila liscio fino a quando appare all’orizzonte una ragazza che sembra essere uscita da una raffigurazione hippie della West Coast americana.
Quanto alla scrittura e alla tematica in realtà non è che sia tornato alle storie che scrivevo nei primi anni duemila, bensì ogni storia che narro è un capitolo a sé e arriva come vuole e io la trascrivo come viene, senza calcoli e senza dichiarazioni di intenti. Se Legno Verde, dopo alcuni romanzi neri, è in chiave ironica e quasi buffonesca è perché è nata così. Al suo interno ci sono argomenti e situazioni pesanti: la pedofilia, la violenza domestica, i rapporti umani, il sesso, i maltrattamenti come modus operandi consolidato, la disciplina, il vuoto e la distanza siderale tra il mondo degli adulti e quello dei ragazzi, eppure… eppure il tutto l’ho buttato sulla carta ridendoci sopra. Attraverso una risata afferro la tua attenzione e ti metto davanti circostanze nelle quali non ci sarebbe nulla da ridere, delle esistenze segnate dal dolore e dallo squallore e tu che leggi lo capisci, ma chi te lo sta raccontando è un giullare seduto ai piedi del sovrano, il lettore, e il giullare dice le cose come stanno, senza sconti, e il re percepisce quello che vuole percepire.
Cosimo Argentina
1.
Tornando a casa
Finita la scuola ce ne tornavamo a piedi, io e Riccardo. Ci lasciavamo il mare alle spalle e risalivamo la gobba di via Abruzzo. In realtà il mare manco si vedeva per via di alcuni fabbricati nuovi, tozzi cubi di cemento sistemati uno accanto all’altro. Certo, se sbirciavi tra un cubo e l’altro ecco spuntare dei segmenti azzurro grigi, ma… diciamoci la verità: chi ha voglia di stare a guardare pezzetti di mare dopo cinque ore di lezione coi professori che entrano in classe fa’ che tengono le banderillas in pugno o direttamente col cavallo e la picca?
Risalivamo la via con le molle a tenere i libri di ma- tematica, storia e grammatica e i quaderni, il diario e l’astuccio delle penne. La mia molla era rossoverde con la fibbia di metallo, quella di Riccardo era gialla.
«Vieni a sentirmi suonare?»
«C’ho gli allenamenti, Rezzò! E poi mi secco a stare a sentire il pianoforte!»
«Perché non mi chiami Riccardo?» Camminavamo con la testa in avanti come i muli.
Riccardo non era mai stato fiidanzato. Io una volta, ma non aveva funzionato. Le ragazze hanno esigenze. Ti chiedono attenzione e tu le devi chiamare e stare con loro quando i genitori le lasciano uscire. E poi vogliono parlare di cose che interessano solo a loro.
«Mi ami, Umberto? Mi ami? Perché io ti amo assai! Ma tu? Tu mi ami?»
«C’ho dodic’anni, Maria! Mi piace quando ti tocco il piccione da sul pantalone, ma…»
«Allora non mi ami! Oppure mi ami? Dimmelo!» Insomma, non aveva funzionato.
All’incrocio con corso Italia passavamo davanti alla caserma della polizia e restavamo un po’ a guardare la pistola nella fondina del piantone. Riccardo si seccava subito, ma io insistevo per vedere una volante uscire a sirene spiegate. A volte succedeva, altre no. Mi piacevano le macchine della polizia con le scritte e il lampeggiante e poi era forte vedere che quando spuntavano da qualche parte la gente cambiava espressione. Ognuno ha qualcosa da nascondere e vedere una macchina della polizia ti faceva venire l’ansia. Quelli in due sul sellino delle moto si fermavano, gli ambulanti sbaraccavano, i venditori di pesce agli angoli delle strade, non potendo spostare tutte le vaschette in battuta, trattenevano il fiato.
Io e Riccardo attraversavamo corso Italia e ci fermavamo davanti a un negozio di articoli sportivi che in vetrina aveva alcune gigantografiie a colori che raffiguravano dei calciatori del mondiale di Monaco di Baviera. C’erano Gerd Müller, Johan Neeskens, Johnny Rep, Pietro Anastasi e quello spennato di Grzegorz Lato. Nell’ultima vetrina c’erano i poster dell’Olanda, della Germania Ovest e del Brasile. Guardavamo le immagini tenendo le molle e i libri in braccio come fossero bambini piccoli. A me piaceva la maglia dell’Olanda perché tutto quell’arancione sul manto verde era un contrasto che m’incantava. Ero devoto a quella maglietta, ma giusto alla casacca orange Nederland, che quella della Pistoiese non mi piaceva perché l’arancione era sbiadito.
Alla fine di via Abruzzi c’era il muro delle suore di Maria Ausiliatrice. Sentivamo i bambini fare l’intervallo mensa. Ogni tanto volava un pallone, lì, nell’aria, e Riccardo continuava a camminare a testa bassa mentre io speravo sempre in un fuoricampo per fottermi un Supersantos, ma non succedeva mai perché i bambini avevano gambette da tisico e calciavano piano.
In via Umbria c’era una fermata del pullman. Alla fermata di solito vedevamo una ragazza coi libri in mano e tutt’e due ce n’eravamo innamorati. Aveva, ’sta ragazza, i capelli lunghi e un po’ ricci, diciamo mossi, biondo scuro. Aveva gli occhi chiari e vestiva come una cantante folk americana. Io e Riccardo restavamo a guardarla alla fermata senza nemmeno attraversare la strada per andarle vicino. Ci bastava guardarla dal lato della merceria del signor Vittorio e dire mi piace da morire, ’mbà, è bona forte, è bella, guarda, guarda come si porta indietro i capelli. Ehi, mi ha guardato, sono sicuro che mi ha guardato, un attimo, ma mi ha guardato.
Lei in realtà guardava da un’altra parte. A volte con lei c’erano queste amiche nemmeno potabili, degli scorfani alati. Una aveva i capelli neri e un neo peloso sul mento e un’altra c’aveva i capelli radi, una specie di foresta dopo un incendio.
«Secondo te come si chiama quella bella?» «Tata!»
«Tata? E mica è un nome!?»
«Tata tutta la vita, Rezzò!»
Passavamo davanti a don Bosco e io mi segnavo, Riccardo non lo faceva quasi mai. Non che fosse un miscredente… era solo che non ci pensava.
«Suono Bach… è una specie di saggio di metà anno, ci sono anche delle ragazze!»
«Le conosco le ragazze del pianoforte, Rezzò. Dei veri cess’immondi! E poi c’ho gli allenamenti al Tamburi vecchio!»
Riccardo era deluso perché non andavo mai a sentirlo suonare. Del resto lui non veniva mai a vedermi giocare a pallone. Ma a scuola eravamo sempre insieme. A scuola detestavamo le stesse cose, cioè quasi tutto, e il più delle volte ce ne stavamo per conto nostro. Solo quando c’era da giocare a pallone lo mollavo lì, sul muretto, e andavo a fare il tocco per le squadre. Lui allora mi guardava giocare per una decina di minuti e poi andava a comprarsi la focaccina. La comprava sempre quando io giocavo cosicché non avrebbe dovuto dividerla. Del resto, anche a me seccava dividere le focaccine che già erano piccole e mezza focaccina non saziava né me né lui. Però mi dava fastidio che comprasse la focaccina mentre io ero impegnato a mettere sotto quelli della seconda B.
«Ma domani ti fai interrogare in inglese?»
«Ma che, sei scemo? Con don Spida? Mtz! Lo sai che mi faccio interrogare solo quando è strettamente necessario!»
«Pensavo che volevi recuperare il quattro».
«Rezzò, detto fra noi, se vado volontario per recuperare il quattro è capace che me ne torno a posto con un due e peggioro la situazione. Quattro e due è tre, fa tre di media! Senza contare gli schiaffi».
«Vieni a vedere il saggio?»
Riccardo suonava il piano e se la cavava pure, ma ciò non toglie che reggevo la faccenda per massimo sette otto minuti. Poi la mia testa si dissociava e cominciavo a guardarmi intorno cercando qualche signora da sgamare. Le signore mi piacevano molto di più delle ragazzine. La mamma di Mariella ad esempio era molto meglio di Mariella. La madre di Eugenia aveva gli occhi di vetro azzurro e le tette un poco scese che emergevano dalle maglie elasticizzate.
«No, ’mbà! C’ho gli allenamenti e se me lo chiedi un’altra volta ti mann’…»
«Okay, va bene, come non detto».
Era bello tornare a casa con Riccardo. Non è che ci dicessimo chissà che, ma era bello lo stesso.
Cosimo Argentina, Legno verde
© 2019 Oligo editore