Esce oggi in tutte le librerie il nuovo romanzo storico di Giancarlo De Cataldo.
Ambientato all’indomani della disfatta di Novara – una delle ultime battaglie della prima guerra d’indipendenza italiana, che terminò con l’inequivocabile vittoria del maresciallo Radetzky e l’abdicazione di Carlo Alberto a favore del figlio Vittorio Emanuele II – Quasi per caso (Mondadori, 2019, pp. 256, euro 16) narra le vicende del maggiore Emiliano Mercalli di Saint-Just e del suo ritorno a Torino, città in cui si aspetta di trovare la fidanzata Naide per convolare a nozze. Ma Naide, una delle prime donne-medico d’Italia e convinta patriota, è già corsa a Roma dove si prepara l’esperimento della Seconda Repubblica Romana governata dal triumvirato composto da Carlo Armellini, Giuseppe Mazzini, e Aurelio Saffi. Emiliano però non fa in tempo ad arrivare che la situazione precipita.
Conosciuto e riconosciuto per gli straordinari successi di Romanzo criminale e Suburra (di cui ha sceneggiato anche i film e le serie televisive), dopo I traditori (2010) e Nell’ombra e nella luce (2015) che aveva come protagonista lo stesso Mercalli di Saint-Just, De Cataldo torna ora a indagare il periodo del Risorgimento italiano mostrandoci luci e ombre di un’epoca storica e portandoci all’interno delle dinamiche di potere che hanno cambiato il volto del nostro Paese. Ma è l’amore a spingere avanti la trama, quel sentimento che tiene in vita l’uomo d’armi e gli fornisce il coraggio e la determinazione necessari per resistere, ancora, giorno dopo giorno, guardando al futuro: «Non aveva forse pensato a lei ogni istante, in battaglia, preoccupandosi di restare vivo, di tornare a casa, da lei, perché infine doveva preservare qualcosa di più prezioso dell’onore, di più urgente della sua stessa vita?».
Qui sotto l’estratto in anteprima, per gentile concessione dell’autore e della casa editrice.
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Torino, 1˚ aprile (qualche giorno prima)
A pochi giorni dalla disfatta di Novara, dove le truppe di Carlo Alberto erano state massacrate dagli austriaci di Radetzky, Emiliano Mercalli di Saint-Just, maggiore dei Regi Carabinieri, si presentò a rapporto dal maggior generale Alessandro Negri di Sanfront. I due uomini si incontrarono nel gabinetto al piano alto di piazza Carlina, sede del comando dei Carabinieri. Negri sedeva alla sua spartana scrivania. Si accese un sigaro e ne offrì uno a Emiliano, che declinò l’offerta e si concentrò sul vermut, il nettare che deliziava il palato dei gentiluomini da quando, più di mezzo secolo prima, il signor Carpano aveva avuto la geniale intuizione di inventare quella meraviglia al gusto di artemisia.
«Quante perdite, Saint-Just?»
«Nessuna, signore. Un miracolo.»
«I miracoli lasciamoli ai preti. Parliamo piuttosto di bravi soldati!»
I due uomini si sorrisero, concedendosi infine una virile stretta di mano. Negri era però di umor nero, e cercava in Emiliano una sponda per il suo amaro sfogo. Illudendosi d’interpretare i desideri del popolo, Carlo Alberto aveva rotto la tregua che durava dall’estate precedente e aveva dichiarato guerra all’Austria. Una guerra lampo durata undici giorni. Peccato che l’avessero persa, boja fauss! L’incompetenza, il tradimento, la cialtroneria dei comandanti prezzolati e l’improvvisazione degli strateghi da boudoir avevano causato più danni del piombo austriaco. Quella guerra, seppur così breve, era costata migliaia di morti. Umiliato sul campo a Novara, il re aveva abdicato e il Regno era passato nelle mani del giovane Vittorio Emanuele. Dopo la delusione del Quarantotto, una nuova mazzata si abbatteva sul sogno dell’Italia unita.
Emiliano aveva ascoltato la tirata annuendo rispettoso.
Sì, tutto giusto, certo. Eppure… eppure, per la prima volta da quando, ancora giovanissimo, si era consacrato alla divisa, Emiliano provava più sollievo che dolore. Si era battuto con onore vicino a Pavia, fianco a fianco con i bersaglieri del maggiore Manara. Era scampato al fuoco nemico. Circondato da un battaglione di cacciatori austriaci, si era arreso dopo aver strappato la promessa dell’onore delle armi. Era seguita una breve prigionia, durante la quale un comandante originario della Carinzia lo aveva impegnato in lunghe e appassionanti sfide agli scacchi; si erano lasciati, se non da amici, quanto meno da gentiluomini rispettosi l’uno dell’altro. Aveva riportato indietro tutti gli uomini che gli erano stati affidati, senza perdite e con un solo ferito. Era felice di essere di nuovo a casa. Non gli apparteneva più l’impeto con il quale, appena un anno prima, aveva cavalcato nella furiosa carica di Pastrengo. Non considerava più la guerra un’attività esaltante, la più degna impresa per un essere umano.
Con un gesto inconsapevole, si accarezzò la cicatrice che gli solcava la guancia sinistra. Ricordo del Diaul. Memoria della sua nuova vita. L’ultimo anno lo aveva cambiato. Per incarico del conte di Cavour aveva smascherato El Diaul, il maniaco omicida che torturava e uccideva prostitute, il diavolo; doveva quel soprannome alla maschera medievale che indossava nelle sue scorribande e che lo faceva sembrare simile a un demone. Inizialmente, lo stesso Emiliano aveva accusato dei delitti un pittore ebreo, che, giudicato malato di mente, era finito all’ospedale dei Pazzerelli, il manicomio di Torino. Il vero assassino era invece un medico dal cervello guasto, legato a elementi del partito reazionario che sfruttavano le sue imprese per seminare il panico nel popolino e contrastare la politica liberale del re; poi il complotto era stato messo a tacere per evitare che se ne servissero politicamente i mazziniani e altri sovversivi.
Emiliano si era appassionato a quel ruolo di investigatore e, ormai, si considerava più un inquisitore che un soldato. Inoltre, era proprio grazie al Diaul che aveva conosciuto Naide, il grande amore della sua vita. La sua promessa sposa. Il matrimonio, previsto per la seconda settimana di marzo, era saltato a causa della guerra. Ma ora che la guerra era finita…
«Eh bon! Ma mi state ascoltando, Saint-Just?»
«Chiedo scusa, signor comandante. Ero sovrappensiero…»
«Vi capisco» ridacchiò Negri, «siete impaziente di rivedere la vostra bella!»
«Signore, io…»
«Su, andate, cosa state aspettando? Da questo momento siete in licenza. Quindici giorni vi bastano per organizzare le nozze?»
«Me li farò bastare.»
«Andate, allora!»
Preso congedo da Negri, Emiliano affidò Morgante, il suo magnifico sauro, a Pierre, l’attendente valdostano che lo seguiva da anni come un’ombra, e gli ordinò di passare dalla signora Naide Malarò per avvisarla che, nel giro di un’ora o due, il suo promesso sposo le avrebbe fatto visita.
«Poi ritieniti libero. Ci vediamo al matrimonio, mon cher! E non dimenticarti di portare tua moglie!»
«Ah, lo farò, signor mio, così vi renderete conto di quello che vi aspetta!»
A piedi, nella mattinata battuta da un vento gelido, Emiliano raggiunse la piccola dimora non lontana dal Mastio della cittadella, l’antica piazza d’armi della città. Quelle tre stanze lo ospitavano come pensionante da quando, nel settembre dell’anno precedente, lui e Naide si erano giurati eterno amore mentre planavano in paracadute sul Valentino dopo essersi lanciati dalla mongolfiera dell’aviatrice francese madame Poitevin. La proprietaria era la vedova Saran, una mazza da scopa di austeri costumi, perennemente vestita di nero che mai era stata vista sorridere, ed Emiliano desiderava con tutte le sue forze di trasferirsi nella ben più confortevole villa in costruzione sulla via delle colline, già quasi completata sotto la supervisione di Naide. Scambiata qualche parola di cortesia con la vedova, si era concesso un bagno ristoratore per emendarsi dalle polveri della guerra, ed era a metà dell’opera di vestizione quando la Saran aveva introdotto un costernato Pierre.
«Elle n’est pas là, monsieur.»
«Elle… ma chi?»
«La vostra… sposa, signor maggiore. La maison è tutta sbarrata, e i vicini dicono che mademoiselle Naide è partita.»
«Come partita? Quando? Per dove?»
«Non so altro, mi dispiace. Che posso dire, signore? Sono stato là, e lei non c’era!»
Emiliano, in preda ai più foschi pensieri, finì sommariamente di vestirsi e, accompagnato da Pierre, andò a controllare di persona. Un miscuglio di ansia e delusione lo pervadeva. Ansia per la sorte di Naide, perché soltanto una causa gravissima poteva averla indotta a scomparire così senza preavviso. Delusione perché cosa poteva esserci di più importante del loro amore, del futuro che si erano ripromessi di costruire insieme? Non aveva forse pensato a lei ogni istante, in battaglia, preoccupandosi di restare vivo, di tornare a casa, da lei, perché infine doveva preservare qualcosa di più prezioso dell’onore, di più urgente della sua stessa vita?
Emiliano aveva le chiavi della sua casa. Faceva parte dei patti fra loro. Nessun segreto, niente misteri. Lui avrebbe potuto raggiungerla in qualunque momento. E, con la stessa libertà, lei avrebbe potuto fargli trovare l’uscio serrato. Perché l’accordo che avevano stabilito non prevedeva gli aridi obblighi contrattuali del perbenismo, ma un libero, mutuo, continuo scegliersi nel reciproco rispetto.
Eppure non poteva fare a meno di provare, mentre varcava la bassa soglia dell’edificio in contrada della Palma, l’acuto morso della gelosia, il terrore del tradimento. I mobili erano coperti da lenzuola bianche, ma doveva essere stato fatto di recente, perché su di essi non si era ancora depositato un granello di polvere. Sulla credenza in stile Luigi Filippo c’era una busta bianca. Emiliano vi si avventò. Emanava un leggero profumo femminile. Una traccia di lei, senza dubbio. Conteneva un biglietto vergato nella sua grafia imperiosa.
Sono a Roma. Dove si combatte per la libertà.
Raggiungimi. Ti amo.
Naide