Gianluca Morozzi è un maratoneta. Di quelli che difficilmente si stancano, che non si risparmiano. Un narratore generoso, dissipato. Districarsi nella mole di romanzi, fumetti, raccolte di racconti che portano la sua firma è difficile. Ho provato su diversi portali a contare i volumi, ma ho rinunciato perché ne spuntavano sempre di nuovi. Filo conduttore della sua opera – o almeno una delle facce che mi sembra gli sia più congeniale – è l’orrore, la morte violenta, la follia intesa come indagine dell’animo umano attraverso atti di cruda violenza che solo sembrano insensati. Tra questi è annoverabile il suo ultimo romanzo dal titolo Andromeda, edito da Giulio Perrone editore, da oggi nelle librerie di cui presentiamo un estratto in anteprima. Anche questa storia è ambientata a Bologna, perché è la sua città, lì vivono i suoi fantasmi, i suoi incubi e Morozzi pare esserci affezionato così tanto da chiamarli per nome, uno alla volta, come le pecore per Polifemo. Questa è una storia solo apparentemente semplice da raccontare. Un uomo sfigurato e senza nome, ne tiene in ostaggio un altro legato ad una croce di Sant’Andrea. Una sciagura giovanile, personale e spaventosa li tiene uniti. Uno non se la ricorda, l’altro non la può scordare. Solo un nome potrebbe salvare l’ostaggio, altrimenti finirà mutilato un pezzo per volta. Ma – come direbbe Jean Claude Izzo – la storia non è l’unica forma del destino, così succede che le vere protagoniste di questo incubo sono le donne. Morozzi ci presenta, una alla volta, questo mazzo di sole Q composto dalla madre bellissima e sconfitta dalla vita, la sorella brutta e soffocata dalla colpa, la fidanzata amata che potrebbe salvare e poi la donna trappola, la carne ambita, desiderio così sfrenato da portare alla rovina. Potremmo dire che questa è una storia dell’orrore, ma la banalizzeremmo. Morozzi attraverso un linguaggio asciutto ci racconta una storia di colpa e di disperazione, di uomini piccoli, meschini, succubi delle proprie debolezze. Ci tiene sospesi fino alla fine, camminando nel vuoto.
Pierangelo Consoli
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Di seguito l’estratto in esclusiva da Andromeda.
Mia madre, nella sua sostanziale stupidità, era crudele in modo inconsapevole. Si nascondeva dietro il contadino culto della schiettezza, Oh, io quel che penso lo dico! era il suo mantra a ogni bestialità dannosa uscita da quelle labbra.
Come se non avere filtro tra il pensiero e la parola fosse una virtù. Avesse pensato delle cose intelligenti, quantomeno…
Allora immagina questa scenetta di vita familiare, Dimitri.
C’è fermento nella casa di via Gerusalemme: è il giorno della cresima di mia sorella. Mia nonna mi sta sistemando la giacchetta da ometto, mio padre cammina avanti e indietro davanti alla porta, mia madre sta pettinando i capelli a Lucrezia.
Lucrezia si guarda allo specchio, si rimira nel suo vestitino della festa mentre la mancata protagonista di Romanzo popolare sbuffa e dice «Uffa, i tuoi capelli mi faranno impazzire».
Poi, nel suo cervellino passa un pensiero. Un pensiero esteticamente legittimo, perché la genetica è stata imparziale, cinquanta e cinquanta: la sua bellezza l’ho presa tutta io, mentre Lucrezia è proprio lo specchio di papà, un cosetto insignificante anche pettinata per bene e con l’abito della cresima.
E mia madre non può tenerlo per sé, quel pensiero.
Solleva i capelli di Lucrezia, fissandola allo specchio, quasi vedendola per la prima volta. E si sente in dovere di dire: «Per fortuna sei intelligente, perché sei proprio bruttina».
Otto parole. Bastano otto parole a disintegrare una figlia.
La faccia di Lucrezia si scioglie. Gli occhi diventano due laghetti d’acqua tremolante. La bocca sembra staccarsi dalla faccia da quanto si piega in basso per l’incredulità, l’enormità, la gratuità dell’offesa. Le ossa della faccia di Lucrezia si fondono come la cera di una candela, quasi per dimostrare ancor di più di esserlo davvero, bruttina. Lo ha detto la mamma in piedi alle sue spalle.
La nonna la folgora con lo sguardo, «Ma no, dai, povera bambina, non si dice», e mia madre, fiera, «Oh, lo sai che sono schietta».
Ecco fatto, Dimitri. Il capolavoro è servito, nell’appartamento di via Gerusalemme. Chapeau!
Quella donna ha segnato la mia vita fin dall’infanzia con una frase pronunciata dietro una porta. E ha annientato la figlia voluta, vantandosi pure della propria sincerità di pensiero. Un capolavoro, davvero. Altro che Ornella Muti! Altro che il film di Monicelli!
Mio padre, al solito, non si è accorto di questo piccolo lampo di tragedia. «Allora, andiamo?» scalpita sulla porta.
Lucrezia, quel che resta di Lucrezia, la figlia svuotata dalla vergogna e dal disprezzo di sua madre, si trascina verso il suo giorno di festa.
L’ultima volta che ho parlato all’Uomo Cinghiale, gli ho detto che cosa era diventato lui, che cosa ero diventato io. Gli ho parlato del Qlippoth, il lato oscuro dell’Albero della Vita della Cabala. Gli ho detto che Qlippoth significa gusci.
Io sono un guscio vuoto.
L’Uomo Cinghiale è un guscio vuoto.
Lo siamo diventati nella stessa notte. Per colpa tua, Dimitri.
Ma Lucrezia, lei si è tramutata in un guscio vuoto molti anni prima di noi. Il giorno della cresima. Per colpa di otto parole scriteriate pronunciate davanti a uno specchio.
Un Oscar a mia madre!
Se lo sarebbe meritato.
Se lo sarebbe meritato davvero.
© 2020 Giulio Perrone Editore
12/11/2020