Mi sento forte. Forte come un muro, mi faccio rimbalzare addosso tutte le mosse e le contromosse, tutti i colpi e i contraccolpi. Io sono un muro. Indistruttibile. Inattaccabile. Incrollabile.
Un rumore inizialmente solo avvertito che si fa forte a mano a mano che ci si avvicina alla sua fonte, sorprendendoti, una volta raggiuntala, per inaspettata intensità e bellezza. Ora non si può più dire rumore, piuttosto una musica come quella prodotta da “centinaia di microscopici battiti d’ala, sopra centinaia di microscopici battiti di cuore”, una melodia che il lettore non può far altro che seguire ammaliato, mentre la stessa si sprigiona dalle pagine di questo romanzo intitolato La stanza dei canarini scritto da Giulia Contini, trentasettenne romana al suo esordio letterario con Bompiani.
La stanza dei canarini è il luogo in cui, la protagonista ancora bambina, prende avvio la narrazione che finisce per tratteggiare un feroce ritratto della provincia italiana dove la protagonista lotta e poi ancora lotta instancabilmente, nell’intento di affermare la propria identità, per divenire totalmente se stessa pur comportando ciò scontri aspri in famiglia e in società.
La stanza dei canarini è la storia di un amore contrastato perché scomodo, fuori da certi schemi sociali imposti; è la storia di un’adolescenza turbolenta con una protagonista alla ricerca della propria anima, che si interroga e si misura con la vita che accade spietata, che a tratti stenta a riconoscersi. Eppure quel suono, quel vibrato profondo provocato da mille battiti d’ali, così impresso nella memoria della bambina e che così bene ne descrive l’essenza, continua a crescerle nel cuore e a un certo punto prende il coraggio necessario per vincere tutte le resistenze.
La stanza dei canarini colpisce per lo stile originale, il linguaggio schietto, il ritmo incalzante e per le sensibilità e franchezza con cui si parla dell’amore. In questo caso travolgente, assoluto, tra la giovane adolescente e la professoressa di liceo, Adele, una donna indipendente e matura, che “abita gli spazi come la luce del mattino”. Per la protagonista, Giulia, sarà da subito il grande irrinunciabile amore, la forma stessa dell’amore atteso e sognato, da far vero ad ogni costo. Ci vorranno tempo e pazienza, però, prima che Adele ceda all’assedio irresistibile di Giulia, occorrerà essere caute per “essere se stesse insieme”, nonostante le famiglie, la scuola e la cornice opprimente di una piccola città. Dopo il trasferimento a Roma tutto diventerà un po’ più semplice ma il tempo, si sa, può separare, farsi nemico, incalzare…
Con La stanza dei canarini l’autrice, grazie agli intensi personaggi della narrazione, fa un gesto di straordinaria bellezza, quello di ribadire che un amore autentico non può mai permettersi di tacere, rivelandosi ad ogni costo per poter essere vissuto. Perché credere ciecamente a ciò che davvero si prova è quanto di più autentico e reale ciascuno di noi possiede.
D’un tratto era dorata.
D’un tratto splendeva.
D’un tratto l’amavo.
Silvia Castellani
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Di seguito l’ estratto in esclusiva
In quella che adesso è la mia stanza un tempo mio nonno allevava canarini.
La stanza dei canarini era uno spazio bianco in cui la luce entrava di traverso a grandi fasci da finestre aperte fino a metà. Il pavimento era fatto di lastroni color panna a piccole chiazze marroni e nere come piatti sassi di fiume incastonati nel suolo.
Io credevo fosse il paradiso. Perché la maestra a scuola mi diceva che il paradiso è un posto in cielo, pieno di luce, dove stanno gli angeli e le rondini, dove se siamo buoni andremo tutti e dove già stavano alcuni dei nonni dei miei compagni di classe.
La stanza dei canarini era il paradiso, e quindi mi faceva paura.
Non salivo quasi mai nella stanza dei canarini, all’ultimo piano della mia grande casa. Ci entravo solo quando mia madre mi ci mandava a recapitare un messaggio di servizio come il pronto a tavola o qualcuno al telefono.
La cosa che mi ricordo meglio della stanza dei canarini è il rumore. Che poi sono due.
Il primo rumore è quello che senti da fuori, mentre sali le scale: è il suono acuto dei versi, e sta in alto, a due metri di altezza dal suolo, come una coltre di fumo sopra mille sigarette.
Il secondo è quello che ti invade una volta aperta la porta: un suono basso, rutilante, come quello dei fogli di carta quando li fai scorrere sotto il pollice una volta alzato un angolo, come il rumore delle lenzuola stese attraversate da venti brevi e continui, come un rumore di rrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrr fatte sbattere tra gli incisivi e il palato, centinaia di microscopici battiti d’ala, sopra centinaia di microscopici battiti di cuore.
Un giorno gli adulti si sono parlati e hanno deciso di togliere l’allevamento di canarini dalla grande stanza dell’ultimo piano e spostarlo fuori, in un capanno vicino alla rimessa degli attrezzi in giardino.
La stanza dei canarini quindi è stata pulita, ritinteggiata e ripavimentata con un materiale simile al parquet.
Un giorno mia madre è venuta da me e mi ha detto: “Ormai sei grande, hai bisogno di una stanza tutta tua. Non dormirai più nella cameretta con le gemelle. Ti trasferirai nella stanza dei canarini quando sarà finita.”
All’inizio credevo fosse uno scherzo. Perché la stanza dei canarini era una stanza brutta che non sembrava per niente una camera da letto. Perché la stanza dei canarini era lontana da tutte le altre stanze della casa: quella delle gemelle, dei miei genitori e dei miei nonni, che stavano tutti al secondo piano mentre io sarei dovuta stare al terzo. Da sola. Perché per la stanza dei canarini c’erano solo due accessi: o la porta principale che dava sulle scale esterne (fredde e buie), o la porta secondaria che passava dalla zona notte attraverso una scala a chiocciola di legno per niente stabile che scricchiolava moltissimo a ogni passo. E poi perché io non mi sentivo affatto grande, non avevo nessuna esigenza di intimità e dividere la stanza con le gemelle era una delle cose che mi piaceva di più. Senza considerare che la loro stanza tecnicamente era la mia, essendo arrivata prima io.
Doveva essere uno scherzo. Non c’erano altre spiegazioni.
E invece no. Era vero. Prima era arrivato il letto, poi la televisione, poi una scrivania. Il trasferimento era imminente. Quando è giunto il momento sono andata da mia madre e le ho detto che dopo attente valutazioni ero arrivata alla conclusione che non mi sarei trasferita nella stanza dei canarini, perché lì i termosifoni non funzionavano bene, faceva veramente troppo freddo, e per la mia salute, che certo stava a cuore anche a lei, sarebbe stato meglio che io restassi a dormire di sotto, insieme al resto della famiglia.
“Hai paura?” mi ha chiesto. “Certo che no,” le ho detto, quando avrei dovuto dirle di sì. “Facciamo una prova. Stanotte dormi nella nuova stanza, se poi hai paura troviamo un’altra soluzione.”
Quella sera mi sono messa il pigiama. Sono rimasta a guardare la tivù fino alle nove e mezzo, come di consueto. Poi ho salutato le gemelle, ho dato la buonanotte ai miei genitori e sono salita in camera per la scala a chiocciola di legno.
Ho pianto tutta la notte.
Mi svegliavo, aprivo la porta, arrivavo al primo gradino della scala a chiocciola per scendere di sotto e rientrare di nascosto nel mio vecchio letto, ma al primo scricchiolio mi fermavo e tornavo indietro. Sono rimasta nel letto, a piangere, aspettando che arrivasse il mattino.
Non sono mai più scesa di sotto.
Non sono mai più tornata a dormire nella stanza delle gemelle.
Non ho mai più fatto veramente parte della casa. Sono rimasta lì, nella stanza dei canarini.
© 2020 Giunti Editore S.p.A./Bompiani