La volpe era già il cacciatore è un romanzo fino a oggi rimasto inedito in Italia di Herta Müller, Premio Nobel per la Letteratura nel 2009, in uscita da Feltrinelli (traduzione di Margherita Carbonaro). Una narrazione che precipita e si immerge nel traumatico periodo della storia rumena precedente alla fine del del regime di Nicolae Ceaușescu.
A pensarci bene, tutti i romanzi della Muller, in qualche modo, raccontano e riproducono un trauma, lo corteggiano, lo amplificano, ci fanno i conti, in un processo che mette in relazione il corpo all’interiorità che lo “ospita”, facendo diventare il trauma stesso un abito da indossare. Ne La volpe era già il cacciatore il dispositivo che disvela simbolicamente il trauma è una pelle di volpe che la maestra Adina tiene in casa: un giorno dalla pelle scompare la coda, e a seguire una zampa e poi un’altra. La maestra è finita sotto lo sguardo indagatore dei servizi segreti rumeni. Il perturbante di Caillois si nasconde in questa scomparsa, in questa “forzatura” magico-realistica, e mette in moto il meccanismo narrativo che giungerà fino alla caduta del regime, portando dentro la rete narrativa, oltre ad Adina, anche la sua amica Clara e Pavel, il suo amante-informatore della Securitate. Attraverso una successione di “quadri”, e grazie a una prosa in grado di “smontare” in frantumi il mondo per poi rimetterlo insieme, la Müller restituisce un altro straordinario corpo a corpo con la paura.
Paolo Melissi
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La strada del verme nella mela
La formica trasporta una mosca morta. La formica non vede la strada, rigira la mosca sottosopra e striscia all’indietro. La mosca è tre volte più grande di lei. Adina ritrae il gomito, non vuole bloccare la strada alla mosca. Un grumo di catrame ribolle luccicando al sole, accanto al ginocchio di Adina. Lei vi posa sopra il dito un istante, un filo di catrame si allunga sotto la mano, si rapprende nell’aria e si spezza.
La testa della formica è come uno spillo, e là dentro il sole non ha spazio per bruciare. Punge. La formica si smarrisce. Striscia ma non è viva, per l’occhio non è un animale. Anche le spighe d’erba strisciano ai margini della città, come la formica. La mosca vive perché è tre volte più grossa ed è trasportata, lei sì che per l’occhio è un animale.
Clara non vede la mosca, il sole è una zucca incandescente che acceca. Le cosce di Clara sono divaricate, le mani posate fra le due ginocchia. Dove le mutandine incidono le cosce ci sono i peli. Sotto i peli un paio di forbici, un rocchetto di filo bianco, degli occhiali da sole e un ditale. Clara si sta cucendo una camicetta estiva. L’ago s’inabissa, il filo fa i suoi passi in avanti, tua madre fottuta sul ghiaccio, dice Clara leccandosi il sangue sul dito. Un’invettiva con il ghiaccio, con la madre dell’ago, del filo. Quando Clara inveisce, tutto ha una madre.
La madre dell’ago è il punto che sanguina. La madre dell’ago è l’ago più vecchio del mondo, che ha partorito tutti gli aghi. Per ogni ago cerca un dito da pungere, su ogni mano che cuce nel mondo. Nelle invettive il mondo è piccolo, e un grumo di aghi e uno di sangue sono sospesi sopra. E nell’invettiva la madre del filo, con i fili aggrovigliati, è appostata sopra il mondo.
In questa calura tu inveisci col ghiaccio, dice Adina, e gli zigomi di Clara sembrano masticare, la lingua le batte nella bocca. Quando Clara inveisce il suo viso fa le rughe, perché nell’invettiva ogni parola è un proiettile esploso dalle labbra, che colpisce le cose. Anche la madre delle cose.
Adina e Clara sono distese su una coperta. Adina è nuda, Clara ha solo le mutandine del costume.
Le invettive sono fredde. Alle invettive non servono né dalie né pane né mele né estate. Non sono fatte per essere annusate e mangiate. Sono fatte solo per vorticare e star piatte e distese, per infuriare un istante e tacere a lungo. Fanno scendere nei polsi il battito delle tempie e salire alle orecchie il pulsare sordo del cuore. Le invettive crescono e si strozzano.
Quando le invettive si spezzano, non sono mai esistite.
La coperta è stesa sul tetto del caseggiato, che è circondato dai pioppi. Sono più alti di tutti i tetti della città, coperti di verde, non hanno singole foglie ma un’unica chioma. Non frusciano. Scrosciano. Il fogliame sta in verticale sui pioppi, come i rami, e il legno non si vede. E dove nulla più arriva, i pioppi tagliano l’aria ardente. I pioppi sono coltelli verdi.
Quando Adina osserva i pioppi troppo a lungo, loro girano i coltelli da una parte all’altra nel suo collo. Poi le vertigini lo afferrano. E la fronte sente che nessun pomeriggio può reggere nemmeno un solo pioppo per tutto il tempo che la luce si prende per sparire nella sera, dietro la fabbrica. La sera dovrebbe sbrigarsi, la notte potrebbe trattenere i pioppi, perché non si vedono più.
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