Il grosso pericolo del mentire non è che le menzogne non
corrispondono al vero, e quindi sono irreali, ma che diventano
reali nella mente altrui.
Cosa succede quando l’amore si trasforma in ossessione? E cosa succede quando questa ossessione, per una strana coincidenza accade durante l’ascesa del Terzo Reich? E, ancora, cosa succede quando questa ossessione si spinge fino al punto di voler cambiare la Storia?
Il cielo in gabbia della scrittrice neozelandese Christine Leunens, già in tutte le librerie dal 21
novembre (SEM), torna a far parlare di sé. In occasione dell’inizio del nuovo anno è in arrivo oggi 16 gennaio, nelle sale italiane, Jojo Rabbit, la trasposizione cinematografica del libro, diretta dal visionario Taika Waititi (nei panni di Hitler), già vincitore nel 2019 del Toronto Film Festival, e in corsa per la notte degli Oscar del prossimo febbraio.
È il 1938 e il giovane Johannes Betzler, a differenza dei suoi genitori viene sedotto dall’ideologia nazista. Quando torna a casa, sfigurato da un’ esplosione, a soli 17 anni, fa una scoperta devastante. I suoi genitori nascondono in casa, dietro a un muro, una ragazza ebrea amica della sorella Elsa. Tra i due si stabilirà negli anni un gioco amoroso, fatto di menzogne e incomprensioni, mentre Elsa, da prigioniera, durante le rare uscite dal suo nascondiglio, guarda dalla finestra un unico pezzo di cielo.
Il film di Waititi che lui stesso ha definito a strange art comedy, rispecchia pienamente lo stile ironico e leggero, a tratti tragicomico, della Leunens, che tratteggia con precisione personaggi ambigui e contraddittori.
Il cielo in gabbia ci racconta fin dove si spinge il desiderio di possesso, attraverso una narrazione in prima persona sagace e duttile, adatta a raccontare e descrivere, di un ragazzo che diventa uomo, crescendo tra le menzogne raccontate, l’autoindulgenza e i sensi di colpa e di una Germania umiliata e sconfitta, alla ricerca di una strada per ricominciare.
Di seguito, Vi presentiamo un estratto del libro.
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Secondo le usanze, il 19 aprile, vigilia del compleanno di Adolf Hitler, fui ammesso nella Jungvolk, la sezione dei più piccoli della Gioventù hitleriana o Hitlerjugend. I miei genitori non avevano scelta, era obbligatorio. Mia madre cercò di tirar su il morale a mio padre, dicendo che non avevo fratelli, che stavo diventando come i figli unici, che mi avrebbe fatto bene uscire, stare con altri bambini. Sottolineò che perfino nei gruppi della Gioventù cattolica si imparava a usare armi, si praticava il tiro al bersaglio, e poi non mi mandavano mica sul fronte russo. Mia madre, lo capivo dalla sua espressione, mi trovava bello nella mia uniforme, anche se non lo avrebbe mai ammesso. Mi riassestò la camicia marrone, mi annodò la sciarpa, mi tirò i lobi delle orecchie. Mio padre alzò appena lo sguardo dal caffè. Non potevo fare a meno di pensare che, se fossi stato in partenza per la Grande Guerra, probabilmente avrebbe ostentato la stessa indifferenza.
Quell’estate ci fu assegnato il primo compito importante. In città erano stati raccolti tutti i libri che incoraggiavano alla perversità o alla decadenza e noi, i membri della Jungvolk, dovevamo bruciarli. Era caldo quel mese, perfino di notte era impossibile stare sotto le coperte, e con tutti i falò che stavamo facendo il calore diventò intollerabile. Noi, i più piccoli, dovevamo portare i libri ai ragazzi della Hitlerjugend, che avevano il privilegio di gettarli alle fiamme. Io e i miei coetanei li invidiavamo, perché quella ovviamente era la parte più divertente. Se uno di noi si azzardava a tirare un libro nel falò, così per gioco, si beccava un ceffone.
Ben presto l’aria intorno al fuoco diventò rovente e irrespirabile. Il fumo era nero, e puzzava di inchiostro bruciato. I libri non la presero molto bene, mandavano scoppiettii spaccatimpani e sparavano schegge incandescenti che erano una minaccia per occhi e vestiti. La gerarchia stabilita non durò molto. In un attimo gettare i libri nel fuoco diventò compito dei paria. Fu una vera sfacchinata per me, con le mie braccine sottili, tirare libro dopo libro, volume dopo volume, con slancio sufficiente per raggiungere le fiamme. Un nome colpì la mia attenzione: Sigmund Freud. L’avevo già visto sui ripiani della nostra biblioteca. Seguivano Kurt Freitag, Paul Nettl, Heinrich Heine, Robert Musil, e anche un mio vecchio libro di storia, probabilmente obsoleto. Lo lasciai goffamente cadere vicino ai miei piedi. Il fuoco però non conosceva limiti, e in un istante anche quel libro fumava e si accartocciava; alcune pagine volarono in aria, qualche capriola, un ultimo guizzo di vita, un bagliore, e poi si polverizzarono.
Quando rincasai, nella nostra biblioteca c’erano dei buchi. Provai un vago senso di disagio, come se qualcuno avesse premuto i tasti di un piano e questi non fossero più risaliti. In alcuni punti, i libri di un intero ripiano erano caduti come tessere del domino a nascondere i vuoti. Mia madre si affannava a trasportare un carico di panni al piano di sopra. Scendendo stancamente le scale, mi vide e trasalì. Pensai che fosse perché ero tutto nero in faccia, ma aiutandola con il carico successivo rimasi sconvolto: era una cesta piena zeppa di libri. Lei incespicò cercando le parole, mi disse che era, ehm, solo in caso non avessimo abbastanza giornali durante l’inverno per accendere il camino, inutile bruciarli adesso che faceva caldo. Ero senza parole. Riuscivo solo a chiedermi se si rendeva conto dei guai in cui avrebbe potuto metterci. Mi ordinò di togliermi le scarpe e di andare a farmi un bagno.
Stranamente, quando mia madre dovette iniziare a frequentare la scuola per madri, in famiglia l’atmosfera si alleggerì. A cena mio padre si divertiva a punzecchiarla. Pestava il pugno sul tavolo, allungava il piatto perché glielo riempisse di nuovo, sbraitava che più che altro le ci sarebbe voluto un corso per imparare a fare la moglie. Pimmichen e io ci divertivamo un mondo quando si lamentava che la mamma era ancora ben lontana dall’ottenere il DeutschenMutterOrden, la medaglia con cui venivano decorate le madri che sfornavano cinque figli. Mutter arrossiva, soprattutto quando mi ci mettevo anch’io: «Sì, Mutti, altri fratelli e sorelle!».
E Pimmichen: «Devo incominciare a sferruzzare?».
E quando mia madre si aggiustava i fini capelli castani dietro le orecchie, ribattendo debolmente che era troppo vecchia per avere altri bambini, le nostre esortazioni raddoppiavano. Cercava complimenti e noi l’accontentavamo. Mio padre le diceva che sperava che alla scuola per madri le avrebbero insegnato come fare dei bei pargoli paffuti. Pimmichen gli dava dei colpetti sulla mano, ma tanto per me non era affatto un segreto. A scuola mi avevano già insegnato tutto quanto c’era da sapere su quei meccanismi scientifici.
Titolo originale dell’opera: Caging Skies
© 2008, 2014 Christine Leunens
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