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Anteprima. Kjell Westö. La sciagura di chiamarsi Skrake

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Quella degli Skrake è una famiglia eccentrica e strampalata, dei Malavoglia in salsa finlandese ma, contrariamente ai loro colleghi siciliani, lontani da qualsiasi senso di tragicità del fato e, per di più, circondati da un verde alone di ironia. La sciagura di chiamarsi Skrake, romanzo di Kjell Westö in uscita il 1° luglio da Iperborea (traduzione di Laura Cangemi), è infatti una saga che racconta le tragicomiche sfortune e le sventure di questa famiglia, che si susseguono durante il corso del” Secolo breve”. Le vicende dei diversi componenti della dinastia Skrake non mancano mai di colpire per la loro mancanza di consuetudine: il nonno Bruno con la sua esistenza misteriosa e le inconfessabili azioni risalenti alla guerra, il papà Werner, campione di lancio col martello e filosofo-pescatore, lo zio Leo, dotato di una infinita fede negli alieni, fino ad arrivare al figlio, Wiktor, scapolo incallito che decide di dedicarsi anima e corpo alla ricerca di ogni traccia che possa illuminare la”vocazione al fallimento” della sua famiglia. Una tendenza al fallimento che, attraverso la scrittura di Kjell Westö – asciutta e vivida e poetica – assume una sorprendente dimensione eroica, quasi fosse l’unica possibile alternativa a una Storia senza senso che soffoca e opprime l’individuo. La sciagura di chiamarsi Skrake è un romanzo di una straordinaria raffinatezza letteraria, e gli va riconosciuto, tra gli innumerevoli meriti, di essere un testo che sfugge a facili catalogazioni, consentendosi tuttavia anche un colpo di scena finale. 

Paolo Melissi

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Di seguito un estratto in esclusiva da La sciagura di chiamarsi Skrake (Iperborea) di Kjell Westö dal 1° luglio nelle librerie.

Mi trasferii da Råberga a Helsinki l’estate in cui compii diciassette anni. Avevo altre possibilità, ma scelsi di vivere da solo nell’appartamento vuoto della mia zia paterna Mary, in Främlingsgatan. Poi frequentai il Normallyceum o, come era stato ribattezzato, il Gymnasium Norsen.

Ero cresciuto in una famiglia strana, e nemmeno i miei unici veri amici d’infanzia Bjöna e Jinx Muhrman erano granché normali. Come guidato da un radar, andai dunque a cercare gli scapigliati della città; nonostante sia l’ondata hippie che quella di estrema sinistra fossero già in fase discendente, nella Helsinki svedese c’erano ancora parecchie sacche di resistenza, e fu in quelle sacche che diventai un uomo e trovai i miei amici. Scoprii anche un lato vivace e aperto di me stesso, conquistando rapidamente un certo grado di popolarità (ma quale diciassettenne con un appartamento a disposizione non la conquista?).

E da allora ho continuato a percorrere quella strada. Ho studiato sia sociologia che diverse materie artistiche, ma non mi sono mai laureato. Sono stato fidanzato una volta e ho avuto molte donne, senza mai sposarmi né avere figli. O forse un figlio ce l’ho, ma se è così l’ho solo generato e poi ho fatto finta di niente, e si può dire in questo caso di essere padri? Nella vita professionale sono stato una specie di misto tra giornalista e pubblicitario. Ho lavorato come copywriter sia alla Lowe Brindfors che alla McCann, ho fatto il segretario di redazione all’Hufvudstadsbladet (sì, è così, ho lavorato per il giornale che un’estate dei primi anni Cinquanta contribuì a ridicolizzare mio padre) e negli anni Novanta, per un quinquennio, sono stato il responsabile delle serie televisive di uno dei nuovi canali.

In realtà mi sono sempre considerato un filosofo e un artista.

Non ho realizzato altro che menzogne e specchietti per le allodole.

Ho manipolato anime, la mia e quelle degli altri.

Ciò che oggi ci industriamo a fare tutti, come nel virtuale così in terra.

(…)

Perché questa storia parla soprattutto di mio padre Werner. E di me, non lo nego. E se sapete qualcosa, anche poco, della città di Helsinki, della sua storia e della sua popolazione di lingua svedese, capite anche dove volevo andare a parare con la lezioncina di storia qui sopra: sarei dovuto nascere in un prestigioso appartamento dalle parti di Ulrikasborg o Brunnspark. Dovrei salutare la gente che incontro con un baldanzoso quanto finto ueilà! come va la vita? già messa in acqua la barca? Dovrei parlare sottolineando le «s» e le «t», ma in modo contegnoso. Dovrei aggirarmi nella rosticceria Stockmanns Delikatess come se fosse la mia dispensa. Invece non è andata così. E in realtà non me ne importa. Väliaikaista kaikki on vain, tutto è in prestito, come dice un intramontabile adagio finlandese. Werner avrebbe espresso il concetto in un altro modo. That’s all right mama, I’m leaving town for sure, avrebbe detto. Nella Finlandia degli anni Cinquanta era difficile trovare dischi rhythm&blues di neri, e così aveva ripiegato su Elvis, diventando un suo fan.

© 2020 Iperborea

29 giugno 2020 

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