Mentre cade il Muro di Berlino, in Canada un uomo riemerge da due anni di stato comatoso. È questo l’incipit sintetico di Berlino, il romanzo di Michael Mirolla che oggi Alter Ego manda in libreria (traduzione di Gaia Giaccone).
Il paziente tornato allo stato di veglia, e decisamente ossessionato dalla città tedesca, fugge dall’ospedale psichiatrico, lanciandosi in un’avventura paradossale in cui le dimensioni di tempo e di spazio, di passato e di futuro si confondono in maniera inestricabile. Berlino diventa lo sfondo distopico delle vicende, e con essa il Muro, la vita notturna e la vita di tutti i giorni, il fardello della Storia e le tragedie più “quotidiane”, a loro volta parte integrante del più ampio sfondo della mente umana. Sì, perché il vero viaggio è quello che si compie nella mente di Chiavetta, non disgiunto dal suo alter ego Serratura, luogo in cui, appunto, lo spazio e il tempo, ma anche la logica e le sue apparentemente inalterabili sequenze, precipitano in un travolgente tobogan in cui la distanza tra realtà e surrealtà è ridotta al minimo sindacale. Insieme alla città e al “protagonista”, prende corpo una schiera di personaggi che incominciano a brulicare con la loro presenza nella pagina – non per numero ma per capacità intrinseca di prendersi un piccolo spazio appena gli è consentito – come Ryle, Zweck, Matlab, Girgit, Celine, ognuno infilato in storie di sesso e masochismo, memorie del nazismo, vendita di stufe. Su tutto aleggia lo sguardo di Mirolla che, sorprendentemente, riesce a velare di ironia la triste verità del reale, e a velare di tristezza l’allegra verità dell’ironia, restituendo con “diabolica” bravura un racconto di lynchiana fascinazione.
Paolo Melissi
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In infermeria, Chiavetta si stiracchiò dopo un dormiveglia agitato, la mano sinistra ancora stretta intorno alla chiave. Aveva gli incubi ogni volta che gli davano i tranquillanti – cosa che fortunatamente non succedeva tanto spesso. Infatti, l’unica altra volta era stata il giorno in cui l’avevano portato in ospedale, quando aveva reagito male alla minaccia di vedersi confiscato il computer nuovo di zecca.
Come quella volta, l’incubo che aveva disturbato il suo sonno era popolato da affollate riunioni di famiglia, feste interminabili attorno a tavole interminabili, chiassosi banchetti che finivano in orge, bevute, canti e balli sotto peri fioriti di bianco e pergolati carichi d’uva. E una fosca immagine di Chiavetta che chissà come fluttuava su tutto ciò. O forse si nascondeva tra i rami di un albero vicino, timoroso di prenderne parte completamente. Di “abbassarsi a quel livello” per così dire.
La cosa strana di quei sogni era che Chiavetta non ricordava festini del genere nella storia della sua famiglia. Ricordava soltanto di essere stato figlio unico. Viziato e vezzeggiato, ma comunque solo. I parenti, dal canto loro, venivano tenuti a una rispettabile distanza e li si andava a trovare per le feste comandate, più per obbligo che per piacere. Tutto era formale e appropriato. Tutto al suo posto, non si faceva niente con spontaneità. Per questo motivo, i Chiavetta erano sempre sembrati una famiglia di borghesi britannici piuttosto che di contadini italiani.
(…)
Si guardò intorno e capì che era tardo pomeriggio e che si trovava nella cadente infermeria di un cadente ospedale psichiatrico in una cadente periferia di Montréal. Era una cosa strana perché, da quando era stato ricoverato in ospedale, non aveva mai percepito l’ambiente circostante in quel modo, ma piuttosto sotto forma di ostacoli e colori, angolazioni precise di luce e ombra, limitazioni precise nei suoi movimenti. E voci. Voci che vomitavano frammenti di qualcosa che poteva aver senso in un altro tempo e in un altro spazio. Ma non in quel tempo e in quello spazio. Si alzò subito e provò nuovamente a uscire dall’edificio, seguendo una linea verde dipinta per terra per evitare che i pazienti si perdessero. Ma le porte esterne erano sprangate e la chiave che aveva in mano non servì a niente. Normalmente, avrebbe semplicemente continuato a provare, instancabile, finché un inserviente non lo avesse scoperto e riportato – più o meno gentilmente – nella sua stanza. Ma non questa volta. Questa volta si voltò bruscamente, stette un attimo a grattarsi la testa e poi, in punta di piedi, scese nel seminterrato pericolante.
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Michael Mirolla è nato in Italia e cresciuto a Montréal. Attualmente vive in Ontario. È autore di una serie di romanzi, sillogi poetiche, raccolte di racconti e opere teatrali. Ha vinto per tre volte il “Bressani Literary Prize” e con il romanzo Berlino è arrivato in finale all’“Indie and National Book Awards”. Il suo racconto A Theory of Discontinuous Existence è stato pubblicato all’interno del volume The Journey Prize Anthology; mentre il racconto The Sand Flea è stato candidato al “Pushcart Prize”. Berlino è il suo primo romanzo pubblicato in Italia.
© 2020 Alter Ego
26/10/2020