David Herbert Lawrence diceva che a noi europei piace pensare ai vecchi classici americani come a dei bei libri per bambini. E lo considerava un complimento. Perché pensava che la letteratura americana avesse una ‘qualità aliena’, tutta americana e soltanto americana, che noi europei potevamo solo guardare, con spocchiosa benevolenza, ammirati come bambini…
I racconti di O. Henry possiedono al massimo grado questa qualità aliena, e il momento in cui l’hanno espressa nel modo più magico è stato quando hanno raccontato la città di New York.
O. Henry nasce a Greensboro, Ohio, come William Sydney Porter, e arriva a New York a quarant’anni, dopo una vita a dir poco movimentata che l’ha visto farmacista, mandriano, giornalista, bancario, transfugo in Honduras e carcerato; ed è in carcere che ottiene la sua lettera di presentazione per la Grande Mela – che lui chiamava ‘Bagdad on the Subway’, pensando alle imprevedibili avventure de Le mille e una notte – su proposta dell’editore della rivista Ainslee’s Magazine, il quale gli aveva comprato dei racconti mentre lui si trovava ancora dietro le sbarre.
O. Henry non fece però il carcere duro ma, anzi, per le sue doti di farmacista e di gentiluomo, non dormì neppure una notte in cella e vi ebbe un trattamento a dir poco di favore, anche perché considerato ‘innocente’…
Era in carcere per aver sottratto alcune somme nella banca in cui lavorava, probabilmente per finanziare la sua rivista autoprodotta The Rolling Stone e per essere scampato alla cattura fuggendo in Honduras. Tornerà per stare al capezzale della moglie morente e non verrà incarcerato prima della sua morte; la polizia aspettò che la donna morisse per andarlo a prendere, in modo che lei non lo vedesse imprigionato. Tutti pensavano che O. Henry avrebbe restituito il denaro appena lo avesse avuto, inclusi i suoi carcerieri.
Quando arriva a New York ha pochi soldi in tasca e molti sogni, proprio come i suoi personaggi. Ha lasciato una figlia in Ohio, la moglie – la prima, amatissima – gli è morta da poco. Ma sente l’energia della città. E ne viene trasportato, sempre più in alto, fino alla fama e alla ricchezza. Una fortuna breve. Non vivrà che altri otto anni, gli anni in cui produce i racconti più iconici e rappresentativi, gli anni in cui poteva darsi che un impiegato mandato da una rivista si addormentasse sul suo divano aspettando il pezzo per l’edizione domenicale. Mitico O. Henry.
E in effetti le riviste facevano a gara a contenderselo – Cosmopolitan, Ainslee’s Magazine, la prestigiosa The New York World’s Sunday Edition di Joseph Pulitzer, Munsey’s Magazine e tante altre – come pochi anni dopo accadrà a un altro grande scrittore dalla parabola breve ed eccezionale, Francis Scott Fitzgerald.
Non hanno in realtà granché in comune O. Henry e F. S. Fitzgerald se non per essere profondamente americani e per aver monetizzato il loro talento vendendo la loro personale versione del sogno americano, rendendola leggendaria. Ma gli eroi di Fitzgerald appartengono all’alta borghesia, mentre quelli di O. Henry sono eroi della strada, gente comune che parla la lingua dei quartieri popolari di New York. Cassiere, impiegati, mendicanti, cameriere, broker occupatissimi che non si possono permettere le vacanze. E scrittori in cerca di un ingaggio per pagarsi la prossima bevuta.
Perché in comune con Fitzgerald O. Henry ha un’altra cosa, quella di essere morto poco più che quarantenne per complicazioni dovute all’alcol.
A New York in quegli anni circolavano le prime automobili – le Pope-Hartford, le Pope-Toledo, le Thomas Flyer – Broadway aveva già le sue stelle, anche se non ancora i migliori commediografi, sulla Fifth Avenue ci si perdeva tra i ristoranti e i negozi o si correva verso la più vicina metropolitana. Né quelle strade, né le facce che le percorrevano, i locali eleganti in cui entravano, né l’atmosfera che vi aleggiava erano tanto diversi dalla city che percorriamo adesso. Un’eterna New York, mai del tutto vera, sempre un po’ immaginata, quasi uscita… da un racconto di O. Henry.
Silvia Lumaca, traduttrice di Come diventare newyorkesi
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Mia moglie e io ci siamo salutati quella mattina nello stesso identico modo di sempre. Lei ha appoggiato la sua seconda tazza di tè per accompagnarmi alla porta d’ingresso. Con le dita ha tolto un pelucco invisibile dal bavero del mio cappotto (l’atto universale di una donna per proclamare il possesso) e mi ha ricordato di badare al raffreddore. Non avevo il raffreddore.
Poi c’è stato il bacio separatorio, il domestico bacio d’addio al gusto di tè Hyson cinese. Non c’era il timore di un imprevisto, di una qualche novità che desse un po’ di verve alla sua consuetudine infinita. Con il tocco sicuro che una lunga e sedicente pratica le aveva garantito, raddrizzò la spilla storta ben fissata sulla mia sciarpa; e infine, mentre chiudevo la porta, sentii le sue pantofole da casa che strusciavano indietro verso il tè che si freddava.
Quando uscii non avevo né un sentore né un’idea di quello che sarebbe successo. L’attacco giunse all’improvviso.
Da parecchie settimane stavo lavorando duramente, quasi notte e giorno, su un famoso caso legale legato alle ferrovie, che avevo vinto trionfalmente pochi giorni prima. In effetti, mi dedicavo alla giurisprudenza quasi senza sosta da molti anni. Una o due volte il mio buon dottor Volney, amico oltre che medico, mi aveva messo in guardia.
“Se non rallenti un attimo, Bellford,” diceva, “all’improvviso ti troverai a pezzi. Ti salteranno o i nervi o il cervello. Dimmi, c’è una settimana in cui ti capita di non leggere, sui giornali, di un caso di afasia – di un qualche uomo che vaga sperduto e senza nome, senza ricordare il suo passato e la sua identità – e tutto per quel piccolo coagulo nel cervello causato dal troppo lavoro o dalle preoccupazioni?”
“Ho sempre pensato” dissi io, “che in quei casi il vero coagulo andasse cercato nel cervello dei giornalisti.”
Il dottor Volney scosse il capo.
“La malattia esiste” disse. “Hai bisogno di un cambiamento, o di riposo. Il tribunale, l’ufficio e la casa: percorri una sola strada. Come passatempo leggi libri di giurisprudenza. È meglio cogliere queste avvisaglie in tempo.”
“Ogni giovedì,” dissi io, a mo’ di difesa, “mia moglie e io giochiamo a cribbage. Di domenica mi legge la lettera che ogni settimana le invia la madre. Che i libri di giurisprudenza non siano un passatempo è tutto da dimostrare.”
Quella mattina, mentre camminavo, ripensavo alle parole del dottor Volney. Mi sentivo bene come sempre, persino meglio del solito.
Mi svegliai con i muscoli rigidi e indolenziti per il lungo sonno sullo scomodo sedile di un pullman. Appoggiai la testa contro il sedile e provai a pensare. Dopo un bel po’ mi dissi: “Devo pur avere un nome di qualche tipo.” Mi frugai in tasca. Non trovai nessuna tessera, nessuna lettera, nessun foglio o monogramma. Ma trovai, nella tasca del mio cappotto, circa tremila dollari in biglietti di grosso taglio. “Devo chiaramente essere qualcuno” mi ripetei, e cominciai di nuovo a pensarci.
La vettura era stipata di individui di sesso maschile, i quali, mi dissi, dovevano avere un qualche interesse in comune, perché fraternizzavano liberamente, e sembravano tutti di ottimo umore. Uno di loro – un gentiluomo robusto con gli occhiali avvolto da un deciso aroma di aloe e cannella – occupò il posto libero di fianco al mio facendomi un cenno amichevole, e si mise a leggere il giornale. Negli intervalli tra i suoi momenti di lettura, parlavamo, come fanno i viaggiatori, di attualità. Scoprii di poter sostenere una conversazione sulle varie questioni correnti con competenza, almeno così mi sembrava. Dopo un po’ il mio compagno disse:
“È uno di noi, ovviamente. Questa volta, da Ovest, siamo un bel gruppo di persone. Sono felice che tengano la convention a New York; non sono mai stato a Est prima d’ora. Mi chiamo R. P. Bolder, Bolder & Son, di Hickory Grove, Missouri.”
Pur impreparato, affrontai l’emergenza, come fanno gli uomini in questi casi. Dovevo esser subito battezzato, e fungere sia da bimbo che da prete e da genitore. I sensi vennero in aiuto a un cervello più lento. L’odore insistente di medicinali del mio compagno fornì l’idea, uno sguardo veloce al suo giornale, dove i miei occhi si posarono su una vistosa pubblicità, fece il resto.
“Mi chiamo” dissi con disinvoltura, “Edward Pinkhammer. Sono farmacista, e vengo da Cornopolis, Kansas.”
“Ero sicuro che fosse un farmacista” disse il mio accompagnatore, affabilmente. “Ho notato il callo sul suo dito indice, dove batte l’impugnatura del pestello. Ovviamente è un delegato alla nostra Convention Nazionale.”
“Tutti questi uomini sono farmacisti?” domandai, sorpreso.
“Certo. Questo pullman viene direttamente dall’Ovest. E sono farmacisti vecchio stampo, nessuna di quelle pillole e pastiglie preconfezionate e brevettate da farmapistoleri, che al posto del banco di lavoro hanno una slot-machine. Noi ci filtriamo da soli i paregorici e ci prepariamo le pastiglie. E non abbiamo intenzione di distribuire semi da giardino a primavera, né di vendere dolci o scarpe. Sentite, Hampinker, ho un’idea in serbo per la convention: sono le nuove idee che vogliono. Ora, sapete le bottiglie da scaffale di tartaro emetico e sale di Rochelle, e Pot. Tart. e Sod. e Pot. Tart. – uno è velenoso, no? E l’altro è del tutto innocuo. È facile confondere un’etichetta con l’altra. Dove le tengono di solito i farmacisti? Ebbene, il più lontano possibile tra loro, su scaffali differenti. È un errore. Io dico: teniamole una di fianco all’altra, così quando ne devi prendere una puoi sempre paragonarla con l’altra ed evitare di sbagliarti. Ha capito l’idea?”
“Mi sembra davvero ottima.”
“Bene! Quando la tiro fuori alla convention mi sostenga. E quei professori dell’Est con le loro sode fosforose all’arancia e le loro creme per massaggi che pensano di avere le uniche pastiglie aromatizzate sul mercato… bè, li faremo sembrare compresse ipodermiche.”
“Se posso essere di qualche aiuto” dissi, affabile, “le due bottiglie di… ecco…”
“Tartaro di antimonio e potassio, e tartaro di sodio e potassio.”
“Dovranno d’ora in poi sedere affiancate” conclusi, deciso.
“Ma c’è un’altra cosa” disse Mr Bolder. “Come eccipiente per manipolare la massa delle compresse, voi quale preferite? Il carbonato di magnesio o la radice di Glycyrrhiza polverizzata?”
“La… ehm… magnesia” feci io. Era più facile da pronunciare dell’altra parola.
Mr Bolder mi lanciò un’occhiata diffidente attraverso gli occhiali.
“Datemi della Glycyrrhiza” mi rispose. “La magnesia rapprende.”
“Ecco un altro di quei finti casi di afasia” mi disse subito dopo, passandomi il giornale, e indicando col dito un articolo. “Non ci credo. Secondo me nove casi su dieci sono truffe. Un uomo è stufo del suo lavoro e della sua famiglia, e decide di spassarsela. Se la svigna da qualche parte, e quando lo trovano fa finta di aver perso la memoria – non sa come si chiama, e non riconosce neppure la voglia a forma di fragola sulla spalla sinistra della moglie… Afasia! Puah! Perché non possono stare a casa e dimenticare?”
Presi il giornale e incominciai a leggere quel che seguiva il titolo pungente:
DENVER, 12 giugno. – Elwyn C. Bellford, famoso avvocato, manca misteriosamente da casa da tre giorni, e tutti gli sforzi per localizzarlo sono finora stati vani. Mr Bellford è un cittadino noto e stimato, con un’attività importante e lucrativa. È sposato ed è proprietario di un’elegante abitazione, dotata della più ampia biblioteca privata dello Stato. Nel giorno della sua scomparsa, ha prelevato una somma considerevole dal suo conto bancario. Nessuno lo ha visto dopo che ha lasciato la banca. Mr Bellford è stato un uomo di gusti e abitudini particolarmente regolari, con una particolare propensione alla vita domestica. Sembrava trovare la sua soddisfazione nel lavoro e in famiglia. Se esistesse una spiegazione per questa sua misteriosa scomparsa, potrebbe forse essere trovata nel fatto che nei mesi scorsi è stato molto assorbito da un importante caso legale connesso alla compagnia ferroviaria Q. Y. e Z.. Si teme che l’eccessivo lavoro lo abbia portato all’esaurimento. Ogni sforzo è stato finora compiuto nel tentativo di scoprire gli spostamenti dell’uomo scomparso.
“Mi sembra che lei non sia del tutto privo di cinismo, Mr Bolder” dissi io, dopo aver letto l’articolo. “Questo, per me, ha l’aria di un caso genuino. Perché quest’uomo ricco, felicemente sposato e rispettato, dovrebbe scegliere improvvisamente di lasciare tutto? So che queste perdite di memoria possono accadere, e che gli uomini a cui capitano si trovano improvvisamente alla deriva, senza un nome, un passato o una casa.”
“Oh, che sciocchezze!” disse Mr Bolder. “È il divertimento che cercano. La gente adesso è troppo istruita. Gli uomini sanno dell’afasia, e la adoperano come scusa. Le donne sono scaltre a loro volta. Quando è tutto finito, ti guardano negli occhi nel modo più scientifico possibile, e dicono: ‘Mi ha ipnotizzato.’”
Con i suoi commenti filosofici Mr Bolder riuscì a distrarmi, ma non mi aiutò.
Arrivammo a New York alle dieci di sera. Presi un taxi fino a un hotel e scrissi il mio nome, ‘Edward Pinkhammer’, sul registro degli ospiti. Mentre lo feci mi sentii pervadere da una gioia intossicante, splendida, selvaggia – un senso di illimitata libertà, di possibilità nuove e reali. Ero appena venuto al mondo. Le vecchie catene – qualsiasi esse fossero – erano state spezzate dalle mie mani e dai miei piedi. Il futuro stendeva davanti a me una strada sgombra, come quella che ha davanti un bambino, e io l’avrei percorsa con il patrimonio di conoscenze ed esperienze dell’adulto.
Pensai che il receptionist dell’hotel mi avesse guardato cinque secondi di troppo. Non avevo bagaglio.
“La convention farmaceutica” dissi. “Il mio baule non è ancora arrivato.” Sfilai di tasca un rotolo di banconote.
“Ah!” disse lui, mostrando un dente d’oro. “Abbiamo un buon numero di delegati dall’Ovest che alloggiano qui.” Suonò un campanello per chiamare il ragazzo.
Cercai di dare un po’ di sostanza al mio ruolo.
“C’è un importante movimento messo in piedi tra noi dell’Ovest” feci, “riguardo al suggerimento che le bottiglie di tartaro di antimonio e potassio, e di tartaro di sodio e potassio siano tenute in posizioni contigue sugli scaffali.”
“Il signore alla tre-quattordici” disse il receptionist, seccamente. Fui dirottato rapidamente verso la camera.
Il giorno seguente comprai un baule e del vestiario, e iniziai a vivere la vita di Edward Pinkhammer. Non opprimevo la mia mente sforzandomi di risolvere il problema del mio passato.
La grande isola metropolitana mi stava portando alle labbra una coppa di liquido spumeggiante. La bevevo con gratitudine. Le chiavi di Manhattan appartengono a chi è capace di portarle. Possiamo essere gli ospiti di questa città, o le sue vittime.
I giorni immediatamente seguenti furono d’oro e d’argento. Edward Pinkhammer, per quanto nato da appena poche ore, conobbe la gioia rara di incontrare quel mondo meraviglioso da adulto completamente libero. Mi sedevo estasiato sui tappeti stesi nei teatri e nei giardini pensili, capaci di trasportare un uomo in terre esotiche e fatate, piene di musica allegra, belle ragazze e parodie grottesche, buffe e stravaganti sul genere umano. Andavo da un posto all’altro a mio piacimento, senza limitazioni di tempo, spazio o comportamento. Cenai in bizzarri cabaret, in ancor più bizzarre table d’hôte al suono di musica ungherese, e delle urla selvagge di volubili artisti e scultori.
O, ancora, dove la vita della notte freme nel bagliore elettrico come un’immagine cinescopica, e tutti i cappellini da donna del mondo, e i loro gioielli, e chi li indossa, e gli uomini che rendono possibili questi tre fattori, si incontrano per ridere e scherzare con effetto spettacolare. E tra tutte queste scene che ho menzionato, imparai una cosa di cui non avevo mai saputo nulla: che la chiave per la libertà non è in mano all’Arbitrio, ma alla Convenzione. Il Rispetto Reciproco ha un casello a cui bisogna fermarsi e pagare, o non ti sarà permesso entrare nella terra della Libertà. In tutto il luccichio, l’apparente disordine, l’ostentazione, l’abbandono, ho visto che questa legge, poco intrusiva eppure inflessibile come il ferro, prevale. Così, a Manhattan, devi obbedire a queste leggi non scritte per essere il più libero tra i liberi. Se decidi di non seguirle, ti troverai in catene.
Ogni tanto, seguendo il mio umore, andavo in cerca di sale signorili, con il soffitto in vetro, decorazioni e arredi eleganti e dove si parlava a bassa voce, e lì cenavo, tra vaghe reminiscenze di una vita decorosa e altolocata. E ancora percorrevo i canali sugli affollatissimi battelli a vapore, pieni di impiegati vocianti e ben vestiti, che amoreggiavano e parlavano senza remore dei loro crudi piaceri lungo le spiagge dell’isola, con altrettante commesse. E c’era sempre Broadway – sfarzosa, opulenta, provocante, mutevole, desiderabile Broadway – che si insinuava come oppio tra i tuoi pensieri.
Un pomeriggio, mentre entravo nel mio hotel, un uomo tozzo con un grosso naso e un paio di baffi corvini mi bloccò lungo il corridoio. Dopo che lo ebbi aggirato, mi apostrofò con offensiva familiarità.
“Salve, Bellford!” esclamò a gran voce. “Che diavolo fa a New York? Credevo che non ci fosse niente in grado di spostarle il naso dai libri. Mrs Bellford è con voi o è un affare che tratta da solo, eh?”
“Si sta sbagliando, signore” risposi io, freddamente, liberando la mano dalla sua stretta. “Mi chiamo Pinkhammer. Se vuole scusarmi.”
L’uomo si fece da parte, apparentemente sbalordito. Mentre camminavo verso il balcone della reception sentii che stava chiamando uno dei portieri, dicendogli qualcosa su un telegramma.
“Mi prepari il conto” dissi all’impiegato della reception, “e mandi qualcuno a prendere il mio bagaglio fra mezz’ora. Non intendo fermarmi in un hotel dove vengo infastidito da degli impostori.”
Quel pomeriggio mi spostai in un altro hotel, un calmo e antiquato albergo sulla parte bassa della Fifth Avenue.
C’era un ristorante poco fuori Broadway dove ti servivano praticamente all’aperto, al riparo di una piacevole disposizione di piante tropicali. Tranquillità, lusso e un servizio perfetto lo rendevano il posto ideale in cui pranzare o prendere una bibita fresca. Un pomeriggio mi trovavo lì e stavo per accomodarmi tra le felci, quando mi sentii tirare la manica.
“Mr Bellford!” disse una voce meravigliosamente suadente.
Mi voltai subito e vidi una signora che sedeva sola – una signora sulla trentina, con degli occhi smodatamente belli, che mi guardava come se fossi stato un suo caro amico.
“Mi stava passando davanti come se niente fosse” mi disse, in tono accusatorio. “Non mi dica che non si ricorda di me. Perché non stringersi la mano, almeno una volta, dopo quindici anni?”
Le strinsi immediatamente la mano. Presi una sedia di fronte a lei, al suo tavolo. Feci un cenno col sopracciglio a un cameriere vicino. La signora stava flirtando con una bevanda all’arancia. Ordinai una crème de menthe. I suoi capelli erano di un bronzo rossiccio. Non riuscivi a guardarli, perché era impossibile distogliere lo sguardo dai suoi occhi. Ma sapevi che c’erano, come sei coscio del tramonto mentre al crepuscolo guardi nelle profondità di un bosco.
“È sicura di conoscermi?” domandai.
“No” disse lei, sorridendo. “Non ne sono mai stata sicura.”
“Cosa penserebbe” le dissi, con una certa ansia, “se le dicessi che mi chiamo Edward Pinkhammer, e vengo da Cornopolis, Kansas.”
“Cosa penserei?” rispose lei, con sguardo divertito. “Bè, che ovviamente non ha portato Mrs Bellford a New York con lei. Avrei voluto lo facesse. Mi sarebbe piaciuto rivedere Marian.” – “Non sei cambiato molto, Elwyn.”
Sentii che i suoi meravigliosi occhi mi cercavano e che cercavano il mio viso.
“Sì, lo sei” si corresse, e c’era una nota dolce ed esultante in queste sue parole; “adesso lo vedo. Non hai dimenticato. Non hai dimenticato né per un anno né per un giorno e neppure per un’ora. Ti avevo detto che non avresti potuto.”
Infilai con ansia la cannuccia nella crème de menthe.
“Sono sicuro che mi scuserà” dissi, sostenendo a fatica il suo sguardo. “Ma è proprio quello il problema. Io ho dimenticato. Ho dimenticato ogni cosa.”
Si fece beffa delle mie parole. Rise deliziosamente di qualcosa che sembrava vedere sul mio viso.
“Ho sentito parlare di te ogni tanto” proseguì. “Sei un grande avvocato giù all’Ovest, non è così? A Denver? O è a Los Angeles? Marian dev’essere molto orgogliosa. Sapevi, immagino, che mi sono sposata sei mesi dopo di te. Potresti averlo letto sui giornali. Solo i fiori sono costati duemila dollari.”
Aveva parlato di quindici anni. Quindici anni sono tanti.
“Sarebbe troppo tardi” dissi, un po’ timoroso, “per offrirle le mie congratulazioni?”
“Non se hai il coraggio di farlo” rispose, con un’audacia così fine che mi zittii, e iniziai a rigare con l’unghia del pollice le pieghe del mio vestito.
“Dimmi una cosa” mi fece, sporgendosi verso di me con un certo slancio, “è una cosa che avrei voluto sapere da molti anni – solo per curiosità femminile, ovviamente – hai mai avuto il coraggio, dopo quella notte, di toccare, odorare o guardare delle rose bianche – delle rose bianche bagnate di pioggia e di rugiada?”
Presi un sorso dalla mia crème de menthe.
“Sarebbe inutile, immagino” dissi, con un sospiro, “ripeterle che non ricordo nulla di tutte queste cose. La mia memoria è completamente in difetto. Non ho bisogno di dirle quanto mi dispiaccia.”
La giovane signora appoggiò le braccia sul tavolo, e ancora i suoi occhi rifiutarono le mie parole, e continuarono a seguire la loro strada che portava dritta alla mia anima. Rise dolcemente, con una strana qualità nella voce – era una risata di gioia – sì, di contentezza, e di disperazione. Cercai di guardare lontano da lei.
“Stai mentendo, Elwyn Bellford” disse, come se lo stesse esalando, con beatitudine. “Oh, so che stai mentendo!”
Guardai con aria idiota verso le felci.
“Il mio nome è Edward Pinkhammer” ripetei. “Sono venuto con i delegati alla Convention Nazionale dei Farmacisti. C’è un movimento in atto tra noi per pianificare un nuovo posizionamento delle bottiglie di tartaro di antimonio e di tartaro di potassio, a cui, molto probabilmente, non sarà un granché interessata.”
Uno scintillante landau si fermò davanti all’ingresso. La signora si alzò. Le presi la mano, e mi inchinai.
“Sono profondamente dispiaciuto,” le dissi, “di non riuscire a ricordare. Potrei spiegarle, ma ho paura che non capirebbe. Non capirebbe Pinkhammer; e anch’io davvero non posso in nessun modo comprendere delle… delle rose e di tutto il resto.”
“Addio, Mr Bellford” disse col suo sorriso sia triste che allegro, mentre saliva sulla vettura.
Andai a teatro quella sera. Quando rientrai in hotel, un uomo dai modi calmi, in abito scuro, che sembrava intento a strofinarsi le unghie con un fazzoletto di seta, mi apparve magicamente a fianco.
“Mr Pinkhammer” disse, con l’attenzione ancora dedicata al dito indice, “posso chiederle di venire con me un attimo e parlare un po’? C’è una stanza proprio qui.”
“Certamente” risposi.
Mi condusse in un piccolo salottino privato. C’erano un signore e una signora. La signora, pensai, sarebbe stata eccezionalmente attraente se i suoi lineamenti non fossero stati oscurati da un’espressione di forte preoccupazione e affaticamento. Aveva stile e portamento, e possedeva una carnagione e dei lineamenti che rispondevano alle mie inclinazioni. Indossava un abito da viaggio; mi stava guardando in modo accorato ed estremamente ansioso, e si premeva contro il petto una mano tremante. Credo che sarebbe venuta verso di me, ma il signore la bloccò con un gesto autoritario della mano. Venne poi lui stesso ad accogliermi. Era un uomo sulla quarantina, un po’ ingrigito sulle tempie, dal viso forte e pensoso.
“Bellford, vecchio mio” disse, cordiale, “sono felice di vederti ancora. Sapevamo, ovviamente, che andava tutto bene. Ti avevo avvertito che stavi lavorando troppo, no? Ora, torna indietro con noi, e sarai di nuovo te stesso in un baleno.”
Sorrisi, ironico.
“Sono stato ‘Bellfordato’ così spesso” dissi “da averci fatto l’abitudine. Eppure, alla fine, può risultare pesante. Potrebbe in qualche modo prendere in considerazione l’ipotesi che il mio nome sia Edward Pinkhammer, e che non l’abbia mai vista prima in vita mia?”
Prima che l’uomo potesse rispondere, la donna proruppe in un gemito straziante. Superò il braccio di lui che cercava di trattenerla. “Elwyn!” singhiozzò, e si gettò su di me, stringendomi. “Elwyn” gemette ancora, “non mi spezzare il cuore. Sono tua moglie – chiamami per nome – solo una volta. Preferirei vederti morto che in questo stato.”
Mi liberai dal suo abbraccio, gentilmente ma con fermezza.
“Signora” dissi, gravemente, “mi perdoni se le dico che sta riconoscendo una somiglianza in modo troppo precipitoso. È un peccato” proseguii, ridendo divertito al pensiero, “che io e questo Bellford non possiamo essere messi uno di fianco all’altro su uno scaffale come le bottiglie di tartaro di sodio e tartaro di antimonio, a scopo identificativo. Per poter comprendere l’allusione” conclusi, disinvolto, “avrebbe bisogno di seguire lo svolgersi della Convention Nazionale dei Farmacisti”.
La signora si voltò verso il suo compagno, e gli prese il braccio.
“Che cos’ha, dottor Volney? Che cos’ha?” mugugnò.
“Vai nella tua camera per un po’” lo sentii dirle. “Io resterò qui a parlare con lui. Il cervello? No, non credo – solo una parte di esso. Sì, sono sicuro che guarirà. Vai nella tua camera, e lasciami con lui.”
La signora scomparve. L’uomo in abito scuro uscì a sua volta, sempre intento nella sua manicure. Penso che aspettasse nella hall.
“Vorrei parlare un po’ con lei, Mr Pinkhammer, se me lo concede” disse il signore rimasto.
“Molto bene, se lo desidera” replicai, “e se perdona il mio mettermi comodo, sono piuttosto stanco.” Mi allungai su un divano sotto una finestra, e mi accesi un sigaro. Lui avvicinò una sedia.
“Andiamo dritti al punto” disse, in tono rassicurante. “Tu non ti chiami Edward Pinkhammer.”
“Lo so bene quanto lei” dissi, tranquillamente. “Ma un uomo deve pur avere un nome di qualche tipo. Posso assicurarle che non sono un grande ammiratore del nome Pinkhammer. Ma quando ci si battezza all’improvviso, i nomi migliori restano sempre nell’ombra. Eppure, pensi se fosse stato Scheringhausen, o Scroggins! Credo di esser stato piuttosto bravo con Pinkhammer.”
“Il tuo nome” disse l’altro uomo, seriamente, “è Elwyn C. Bellford. Sei uno dei più importanti avvocati di Denver. Stai soffrendo di un attacco di afasia, che ti ha portato a dimenticare la tua identità. La causa dell’attacco è stata l’eccessiva dedizione al lavoro, e, forse, una vita troppo carente di naturali svaghi e divertimenti. La signora che ha appena lasciato la stanza è tua moglie.”
“È quella che definirei una bella donna” dissi, dopo una pausa giudiziale. “Ho specialmente apprezzato la sfumatura castana dei suoi capelli.”
“È una moglie di cui andare fieri. Dal giorno della tua scomparsa, quasi due settimane fa, non ha praticamente chiuso occhio. Abbiamo scoperto che ti trovavi a New York grazie a un telegramma inviato da Isidore Newman, un commesso viaggiatore di Denver. Disse di averti incontrato qui in un hotel, e che tu non l’avevi riconosciuto.”
“Penso di ricordare l’accaduto” dissi. “Il tipo in questione mi chiamò ‘Bellford’, se non vado errato. Ma non crede sia ora che anche lei si presenti?”
“Sono Robert Volney, dottor Volney. Sono stato tuo amico intimo per vent’anni, e il tuo dottore per quindici. Sono venuto qui con Mrs Bellford, per scoprire dov’eri, appena abbiamo ricevuto il telegramma. Provaci, Elwyn, vecchio mio – prova a ricordare!”
“A che serve provarci?” domandai, accigliandomi un poco. “Dice di essere medico. L’afasia si può curare? Quando un uomo perde la memoria, gli torna all’improvviso o per gradi?”
“A volte gradualmente e in modo parziale, a volte di colpo com’era sparita.”
“Si occuperà del mio caso, dottor Volney?” domandai.
“Vecchio mio” disse lui, “farò tutto quel che è in mio potere, e tutto quello che la scienza può fare per curarti.”
“Molto bene” dissi io. “Allora mi consideri un suo paziente. Vorrei che per adesso la questione rimanesse confidenziale – professionalmente confidenziale.”
“Ovviamente” disse il dottor Volney.
Mi alzai dal divano. Qualcuno aveva messo un vaso di rose bianche al centro del tavolo – un mazzo di rose bianche, profumate e appena spruzzate d’acqua. Le gettai fuori dalla finestra, e poi mi distesi di nuovo sul divano.
“Sarebbe meglio, Bobby” dissi, “che la cura facesse effetto di colpo. Sono piuttosto stanco di questa cosa, in ogni caso. Puoi andare adesso, e portare qui Marian. Ma, oh, doc” dissi, con un sospiro, dandogli un calcio allo stinco, “buon vecchio doc – è stato fantastico!”
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