“Ci sono uomini ai quali si ordina di camminare sulla via dei fiori e uomini cui s’impone di trascinarsi per la via dei cardi e dei rovi…”
Comincia così un celebre racconto di Camilo José Cela e c’è da chiedersi se non valga lo stesso per gli anni, e se questo 2020 non sia un anno che c’impone una lunga processione sui cardi e sui rovi.
A una domanda come questa e a tante altre saprebbe, e prova a rispondere, Paolo Di Paolo nel suo Svegliarsi negli anni Venti. Il cambiamento, i sogni e le paure da un secolo all’altro, edito da Mondadori, da oggi nelle librerie e di cui presentiamo un estratto in anteprima.
È questo un saggio molto particolare. In esso si prova a comprendere un presente così angosciante, per il quale mi pare che la parola immobilità maggiormente si presti più che altre, là dove nell’altro ’20 – quello del secolo scorso – tutto pareva doversi mettere in movimento, e tutto era scoperta e avanguardia e vita.
Di Paolo prova a comparare i due secoli, con un talento per la narrazione e l’analisi che è raro nel nostro panorama.
Alcuni passaggi assomigliano a lenti che ci aiutano a vedere chiaro tutto quanto appariva sfocato.
Attraverso un’opera curiosa e sinottica, l’autore scopre assonanze: il Covid adesso, la Spagnola allora; la rabbia dilagante per una povertà strisciante che cominciava a farsi largo tra tutti i ceti della popolazione; e dissonanze come le grandi feste dell’età del jazz che oggi ci sono proibite, le migrazioni e le avanguardie che oggi sembrano bloccate in un loop temporale, hauntologico, come scriveva Fisher prima di cedere al più cupo dei loop, dei cliché: il suicidio dell’uomo di genio.
A volte si fa una fatica tremenda a capire se Di Paolo stia scrivendo, o citando, una pagina del nostro secolo o di quello scorso. Come quando cita il racconto di Werfel, in cui Carlo Fiala perde il lavoro e poi si ammala, ha la febbre che non scende, finisce in ospedale e lì muore.
Una storia simile a tante che si sentono al telegiornale di altri Piccoli Borghesi che ugualmente muoiono.
Di Paolo traccia una parabola letteraria, le citazioni, le vite, le storie, si affastellano e l’analisi procede per accumulo, stratificandosi.
Ogni capitolo si apre con un dialogo raggelante tra l’autore e Siri, e Alexa – le assistenti cibernetiche di Amazon e di Apple. Sono piccoli scambi di battute che tendono a sottolineare la solitudine dell’era moderna, sono dialoghi alla Galaxy, alla 2001 Odissea nello spazio. Mi tornano alla mente le grandi promesse, le aspettative che gli autori di fantascienza riponevano nel terzo millennio. Grandi viaggi, colonizzazioni spaziali…tutte infrante, rimandate a un momento che non abbia nella chiusura, nell’immobilità, l’unica strategia, l’unico piano per venirne fuori.
Pierangelo Consoli
#
Di seguito l’estratto in esclusiva da Svegliarsi negli anni Venti
Midnight in Paris
Un pomeriggio, sulla spiaggia di Ostia, ho visto Woody Allen da vicino. Aveva un cappello beige da pescatore calcato sul- la fronte, dormicchiava in una pausa dalle riprese in una posizione quasi zen. Intanto lo staff si agitava – macchinisti a torso nudo, comparse rincantucciate all’ombra – sulle passerelle in legno dello stabilimento balneare Vecchia Pineta. Molti bagnanti, dalla spiaggia, si sono fermati a guardare – forse nemmeno in grado di riconoscere in quella folla il regista di Manhattan, allora quasi ottantenne, e di chiedersi che cosa ci facesse in un pomeriggio d’estate a Ostia.
Stava girando uno dei suoi film «turistici» sulle città europee: dopo Barcellona, toccava a Roma. To Rome with love, appunto: tre storie o storielle incrociate sul fondale della Città eterna. Grande attesa (anche dei romani), grande delusione: troppi cliché, musichetta invadente; una cartolina in piena regola, con gli stereotipi su romanità e italianità messi in fila. E tuttavia, a una visione approssimativa può sfuggire un riferimento non da poco, una chiave segreta di questo e di molti film di Allen. In una scena viene evocata la «malinconia di Melpomene», traduzione italiana per Ozymandias melancholia. La sensazione che il poeta inglese Shelley provò davanti a una statua egizia conservata al British, il colosso di Ozymandias, segnato, sbriciolato dal tempo. «Nulla rimane» dice il poeta. Restano i fantasmi.
Frequentarli, in fondo, è un’attività che ci impegna più di quanto crediamo. Non si tratta di scricchiolii sinistri, di nebbiose ombre umanoidi: i libri che leggiamo, le opere d’arte che contempliamo, le città che visitiamo sono un traffico costante e appassionato con gli assenti. Che ci figuriamo, di solito, come interlocutori più rassicuranti di quanto fossero da vivi, formando nella testa un’immagine di una comunità, di un mondo, di un’epoca, sempre poco attendibile. Alla «malinconia di Melpomene» Allen accosta la «sindrome dell’epoca d’oro», definendola un difetto dell’immaginario romantico di chi non riesce a cavarsela nel presente.
Su tale sindrome ha costruito Midnight in Paris, la vicenda di uno scrittore americano, Gil, alle prese con il tipico blocco da pagina bianca. Durante una vacanza a Parigi, città che lo esalta, proprio mentre vagheggia gli anni Venti, i caffè affollati di artisti, Picasso, Hemingway, Fitzgerald, si ritrova nottetempo gomito a gomito con i suoi miti. A mezzanotte un’auto d’epoca passa davanti a una chiesa, lo raccoglie e, attraversando un corridoio spazio-temporale che non ha nulla di fantascientifico, ma è solo un trucco narrativo, una magia, Gil si ritrova a parlare con un’amante di Picasso e con Salvador Dalí. Riesce a far leggere il suo romanzo inedito a Gertrude Stein.
Confesso, a questo punto, che anche a me sarebbe piaciuto suonare al 27 di Rue de Fleurus, uscendo dai Giardini del Lussemburgo, per affidare alle mani della signora Stein ciò che allora stavo scrivendo. E, a dire il vero, in qualche modo l’ho fatto: un venerdì di gennaio, alla metà degli anni Duemila, «con un sogno in tasca», come bisognerebbe attraversare Parigi secondo Allen. Giovani, e con un sogno in tasca. Non mancava nemmeno la pioggia, che – stando alle inclinazioni meteoropatiche del regista – non può non esserci.
Così, con l’ombrello aperto, mi sono piazzato per qualche minuto lì davanti, avvolto nella mia sindrome dell’epoca d’oro, nella mia nuvola d’immaginazione. Che quasi mi consentiva di afferrare, appena oltre il portone d’ingresso, la visione del grande camino, un tavolo con una tazza di tè fumante, il liquore di prugna e di lamponi. Che cosa stavo aspettando? Che qualcuno mi aprisse? Poi ho percorso a ritroso l’itinerario che Hemingway faceva per andare a casa di Gertrude Stein: Rue Monge, Rue Cardinal Lemoine, Boulevard Saint-Michel…
In Midnight in Paris, Allen strattona spesso il suo personaggio: tu sei innamorato di un sogno, gli fa dire da qualcuno, con tono di rimprovero. E quando parla con l’amante di Picasso cercando di convincerla del privilegio di essere vivi in quel decennio, lei gli parla del fascino della Belle Époque: «Sarebbe stata perfetta per me!». I chioschi, i lampioni a gas, le carrozze a cavalli. Zelda e Scott Fitzgerald, intanto, sbuffano annoiati. Da cosa? Dal presente, naturalmente.
Immerso nel proprio, ciascuno scava un cunicolo che possa portarlo altrove: a evadere, come si dice. I primi racconti che ho scritto erano tutti giocati su quest’esperimento mentale, vagamente infantile, del «facciamo che io ero». Mi trapiantavo in luoghi e tempi non miei. Provavo, che so, a vedermi scrivere una lettera a Marcel Proust come uno che l’avesse appena letto sul «Figaro». E intanto – me ne accorgo ora – il presente che vivevo e il passato che sognavo si confondevano, maturando lo strano impasto che adesso rimpiango.
Le anatre che si alzano in volo su un laghetto, la pioggia fredda – una goccia s’infila nel colletto della camicia, una cioccolata calda presa da Angelina, il tassista scortese che mi lascia davanti alla fermata del métro Jussieu, un tè preso nel caffè della moschea, in un vociare avvolgente scandito dal tintinnio dei cucchiaini. Le mie ambizioni confuse, il mio sogno in tasca lo ritrovo in quel volumetto consumato di Hemingway, e così le foglie fradicie, e perfino una ragazza che entra in un locale, si siede accanto alla vetrina, e il turbamento e l’eccitazione che produce, con il suo viso «fresco come una moneta appena uscita dalla zecca, se coniassero le monete in una carne liscia con la pelle rinfrescata dalla pioggia».
È in queste pagine che Hemingway elabora la matrice di una posa letteraria contagiosissima: quella dello scrittore che crea al tavolino di un caffè. I quaderni con la copertina scura, le matite. Il broncio ispirato, la fortuna. «Ciao, Hem. Che cosa fai? Scrivi al caffè?» Capita spesso che qualcuno metta piede nella Closerie des Lilas, su Boulevard du Montparnasse, e domandi dove si sedesse Hemingway. Non ricordo chi ha raccontato di un cameriere che ebbe la folgorante intuizione di rispondere: «Un po’ dappertutto, monsieur».
Fatto è che si può usare Festa mobile come una guida turistica nello spazio-tempo: volete prendere un buon caffellatte in Place Saint-Michel? Fare una passeggiata nei giardini del Lussemburgo? Fare un giro da Shakespeare & Company, al 12 di rue de l’Odéon? Ernest pesca fra gli scaffali Turgenev e D.H. Lawrence. Andare a visitare l’albergo dove morì Verlaine. Tanto per inseguire un fantasma che insegue un fantasma. Proseguite per Rue Notre-Dame-des- Champs se volete immaginare Hemingway che fa due chiacchiere con Ezra Pound. O al Dingo Bar – c’è ancora! – al 10 di Rue Delambre dove incontra per la prima volta Francis Scott Fitzgerald.
«Aveva capelli ondulati, biondissimi, una fronte alta, occhi spiritati dallo sguardo dolce, e una bocca irlandese, delicata, con le labbra sinuose, che, se fosse appartenuta a una ragazza, sarebbe stata la bocca di una bellezza.» Così Hemingway descrive il nuovo amico, aggiungendo qua e là dettagli impietosi, come nella scena in cui lo accompagna – o almeno così racconta – al Louvre, per fargli vedere le statue classiche e rassicurarlo sulle misure del suo pene. «Scott, tu mi hai chiesto di dirti la verità e io posso dirti un sacco di altre cose ma questa è la pura verità e hai tutto ciò che ti occorre. Potevi andare da un medico.»1
La complicità fra i due passa anche da qui, diventa leggendaria, e li inchioda al mito di quell’epoca, alla misteriosa concentrazione di talenti nella stessa città, in quel dopoguerra parigino, elettrico, disinvolto, accogliente. A fare l’elenco dei nomi, non si finisce più. Matisse e Picasso. Dalí e Isadora Duncan. Breton e Kandinskij. Eccentrici, pionieri, creatori di mondi. Più spulci nelle cronache, più ne trovi. Sono in larga parte immigrati, expat e fuori sede – se non di lusso – d’eccezione.
Mi imbatto per caso nella vicenda di un’inquieta ventenne che arriva a Parigi da Nantes. Figlia di un giornalista e nipote di quel Marcel Schwob affascinato dalle vite immaginarie, nacque Lucy Schwob e cambiò nome in Claude Cahun. «Neutro è il solo genere che fa per me» disse, e per questo scelse l’ambivalente Claude. Cahun rimandava alle radici ebraiche, a causa delle quali fu aggredita già negli anni di liceo.
Nella capitale francese respira il fermento delle avanguardie, incontra la donna che sarà sua compagna anche nell’arte e nella fotografia, Suzanne Malherbe/Marcel Moore. Si lascia ispirare da Breton e lo ispira. Gioca col suo Narciso, e ne scrive in questi termini: «Io! – Modesto Narciso. Vi spiegherò il mio self-love. È falso. In realtà, ho grande bisogno degli altri». Non sembra forse la didascalia più esatta per i miliardi di selfie di cent’anni dopo? «Narciso non si ama- va. Si è lasciato ingannare da un’immagine. Non ha saputo attraversare le apparenze… Ma se avesse saputo amar- si al di là del suo miraggio, la sua sorte sarebbe stata felice, degna dell’invidia dei secoli.»
2 Così Claude si ritrae e allo stesso tempo si cancella, si trasforma, si traveste, si vela. Fa di tutto pur di non coincidere con sé stessa. «Che cosa vuoi da me?» chiede am- bigua allo spettatore. Un utente Instagram, che trovo con l’hashtag #claudecahun, mostra ai follower la caviglia con un tatuaggio fresco a lei dedicato.
La cerco in Rue de Grenelle, dove affittò il suo primo appartamento parigino. Ne inseguo l’ombra al 70 di Notre-Dame-des-Champs – proprio a seicento metri abitava Gertrude Stein, in quegli stessi anni Venti, ruggenti e folli. Me la immagino che passeggia per Rue Crémieux, a pochi passi dalla Gare de Lyon. Ho saputo che i residenti vorrebbero limitarne l’accesso ai turisti causa eccesso di scatti fotografici.
Si può chiudere una strada per colpa di Instagram? Nota e fotografatissima per via delle case colorate con toni pastello, Rue Crémieux vanta decine di migliaia di immagini condivise sui social, con pose di qualunque tipo. Selfie, baci romantici. Le più demenziali sono raccolte in uno speciale profilo Instagram, clubcremieux: passi di danza, posizioni yoga, verticali. Non manca niente.
La attraverso in un tranquillo primo pomeriggio, e non c’è gran folla di fotografi, a dire il vero. Basta attendere, poi qualcuno arriva. La coppia con valigie al seguito – le ruote dei trolley si fanno sentire. Si scattano foto a vicenda, lui con lo smartphone, lei anche con la macchina fotografica appesa al collo. I residenti passano veloci con aria indifferente, o rassegnata.
L’«instagrammabilità» del luogo è la fortuna o la condanna di Rue Crémieux? Svegliarsi negli anni Venti nella stra- da più fotografata di Parigi – fra umani che cercano posture ed espressioni giuste per un selfie – è spiazzante. Pare che ogni secondo, sul pianeta, vengano scattate quarantamila foto. La sociologia alla buona non aiuta. La neurologia e le scienze cognitive? La bibliografia sugli effetti che, nel cervello dell’umanità fotografante, hanno questi scatti compulsivi è già sterminata. Ricordiamo meno, ricordiamo peggio? E quando mai avremo il tempo di scorrere e con- templare le troppe foto della nostra vita?
Quando, sul finire degli anni Venti dell’altro secolo, lavora alla sua Piccola storia della fotografia, Walter Benjamin giudica «rudimentali» i tentativi di analizzare da una prospettiva teorica il fenomeno della fotografia. E recupera, con sottile sconcerto, le angosce delle generazioni di metà Ottocento di fronte all’arte «diabolica». «Voler fissare immagini effimere è non soltanto un’impresa impossibile, come è risultato da un’approfondita indagine tedesca, ma anzi lo stesso desiderio di volerlo fare è un’offesa a Dio» si poteva leggere su un giornaletto sciovinista tedesco del XIX secolo.
3 Benjamin alza le spalle e, ostinato, continua a inseguire l’aura delle fotografie dei primordi, in cui tutto «era predisposto perché durasse». Quando si chiede se «la didascalia non diventerà per caso uno degli elementi essenziali dell’immagine fotografica», non si può dire che prefigurasse il peso degli hashtag e dei microtesti, eppure…
Intanto, cammino lungo rue Crémieux e scorro fotografie di rue Crémieux postate con l’hashtag #ruecremieux. Mi imbatto nel primo piano di una ragazza – cosplayer e mo- della, dice di sé – con la seguente didascalia: «Un ultimo sguardo a te stessa per ricordare il tuo viso per anni». Difficile che sappia di quella coetanea che, un secolo fa, esplorava tutte le possibilità dell’autoritratto. Decine e decine di selfie ante litteram: coreografici, creativi, inquietanti, moltiplicati; lei allo specchio, lei con i capelli rasati a zero (lo fece proprio nel 1920, arrivando nella grande città), lei in maschera, lei travestita da uomo; divertenti fotomontaggi e «filtri» sapienti, come li chiameremmo oggi.
C’è chi attribuisce a Claude Cahun perfino una inconsapevole anticipazione dei trucchi con cui oggi si aggirano le censure dei social al corpo nudo: il meraviglioso autoritratto fotografico in cui indossa la maglietta bianca con i capezzoli disegnati e la scritta «Sono in allenamento, non baciarmi».
È comprensibile che il protagonista di Midnight in Paris abbia, entrando in un’auto d’epoca negli anni Venti, l’aria incredula di chi non si spiega tanta creativa vitalità. Di chi, cioè, non riesca a coglierne altrettanta intorno a lui, nel suo oggi. Ma il confronto, che risente sempre di prospettive falsate, è meno interessante di una domanda in apparenza più generica e destinata, tutto sommato, a restare senza risposta: come si fa a «inventare il presente»? Come riesce una mente dotata di talento, talvolta di genio, e di spudoratezza, sensibilità speciali, ad assestare al mondo vecchio il colpo che lo fa tramontare? Come funziona la gestazione di un mondo nuovo?
«Sentivo la gestazione di un mondo nuovo, il suono dei fiumi torrenziali che prendevano il loro corso, il raschio, lo strofinio delle stelle, il suono delle fontane aggrumate di gemme scintillanti.»
Così scrive Henry Miller nella vorticosa, sbrigliata confessione d’artista che è Tropico del Capricorno. Sono i suoi anni Venti, newyorchesi e, sul finire del decennio, parigini. Racconterà di quella sua «vacanza all’estero» come di un inseguimento, o di una staffetta: perfino più vecchio di qual- che anno di Hemingway e Fitzgerald, va a cercare la scia della Generazione perduta, prova a trattenerla. Cammina e scrive negli stessi luoghi. Diffida della modernità americana, trova in quella europea un ritmo vitale, un delirio di energia, l’occasione per mettere a frutto il caos di una società frantumata dalla guerra. Si appella alla nuova scrittura di Apollinaire, morto il giorno prima dell’armistizio in un ospedale militare, richiama i suoi versi e li fa propri:
Abbi compassione di noi che sempre combattiamo alle frontiere Dello sconfinato futuro, Compassione dei nostri errori, compassione dei nostri peccati.
4 Elenca, come in una litania, in una preghiera, i «nomi forestieri» di Cendrars, Aragon, Tzara, Breton, Ernst, Grosz. Scopre il primo manifesto Dada, urla il suo sì alla nascita delle forme nuove, al parto folle di nuovi esseri, si associa agli «scavatori del futuro» che sputano i loro versi magici, a coloro che distruggono ma senza usare munizioni, a coloro che da un mondo di morte estraggono «un frenetico desiderio di vivere», un mondo di energia e di vita, come auspicava un Freud già sessantenne – «Non c’è da stupire se la nostra libido, così impoverita di oggetti, ha investito con intensità tanto maggiore ciò che ci è rimasto.»
5 Miller parla di una «lingua nuova che passerà traverso la lingua morta dei suoi giorni come la radio passa per la tempesta», si scopre addosso una «epidermide nuova», una fame erotica inarginabile, e – pensando a quei milioni di uomini macellati al fronte – invoca una festa nel giardino del cimitero.
© 2020 Mondadori
17/11/2020