Poesia. Per carità. Ce n’è anche troppa. Scorre a fiumi eppure non ha corso. Una delle più elementari leggi dell’economia lo spiega bene. E si dice legge non perché sia dettata, ma perché si tratta di una costante osservata pressoché sempre nel contesto umano del reale, quindi probabilmente vale; come l’attrazione del peso verso il basso. Si chiama inflazione.
Più aumenta la disponibilità di un bene, meno quel bene vale. Ti ci puoi accanire, eppure accade. In Italia si osserva una grave inflazione di poesia, in tutto e tutti. Nel paesaggio, ad esempio, naturale ed architettonico che si deturpa e insozza a cuor leggero. Le città più sono poetiche meno le si cura, quasi come intrinseco atto d’amore. Anche la Storia diventa poesia e la si può quindi ignorare e sfregiare a piacimento. La poesia stessa diventa l’alibi della trascuratezza in generale. Ce n’è troppa ovunque. Troppa in ogni singolo individuo (percepita o presunta) per riconoscerle una qualche forma di rispetto vero o un valore d’uso. Chiunque ne abbia voglia se la fa come la pasta, ci si abbuffa compiaciuto, può sovranamente stamparsela e dirsi poeta. Con la soddisfazione, per altro rara, della comprensione piena.
E fin qui niente di nuovo, niente che non si dicesse già da un secolo, o anche due. Leopardi te l’avrebbe detto negli anni Venti dell’Ottocento. S’è avverato: la poesia, come moneta, qui è talmente tanta che non ha più valore. Giorgio Caproni supplicava i figli di non dire che papà è poeta, perché il poeta era l’istrionico e svitato macellaio di quartiere. La competenza letteraria e culturale richiesta è nulla, anzi un’onta grave. Il poeta, salvo che non sia il macellaio, è sempre uno sfigato e il suo valore percepito è sotto lo zero. Nell’Italia odierna può balzare giusto all’attenzione generale per un giorno in alcuni specifici casi. Ad esempio in morte del poeta stesso, molto meglio se suicida, strategia promozionale efficacissima, senonché irreversibile. Oppure all’occorrenza del tema d’esame ministeriale, stramaledetto e sbertucciato da una generazione di studenti fieramente impreparati che godranno di ottimi agganci. Oppure in caso di grande accadimento nefando, tipo quarantena per pandemia globale. In tal caso, al terzo giorno di stoica resistenza sul fronte del divano, gli spiriti ruggenti, accecati da impeti di auto-eroismo, riaccendono la passione per la poesia, che risorge di botto e allora a tutti gliene frega molto. La Musa rediviva li rivisita e ha un messaggio, una sentenza. Umilmente statuaria, Ella forgia un post da una wi-fi con un palmare che prende fin lassù in Parnaso; col quale punta il dito sulla tecnologia, cioè quella cosa che le permette di farlo ed esser vista. E dice basta a questo folle andare che allontana tutti (voi) dalla lentezza delle sere a far la calza e dal pane fatto in casa. Alla fine della fiera anche una pandemia (come la poesia) è un castigo meritato. L’opinione pubblica si fa un bel picco emotivo. Si batte il petto, si straccia le vesti abiurando WhatsApp mezz’ora buona. Grazie Musa, voce ancestrale di velati ve-lo-avevo-detto-stronzi tra eleganti enjambement. Grazie per il sano scappellotto, ci si rivede magari al prossimo lockdown. Videochiamo io.
“ti starai chiedendo / il perché di tutto / questo”
In effetti, sì. L’incipit del poema “Bile” parte da qui, memorabile. Dove non ha corso la poesia, figurati un poema. Se sei in cerca di ieratica purezza monastica, che venga a rabbuffarti quando sgarri dal sommo bene (…cattolicesimo ne abbiamo?); o se ti va uno stuzzichino di poesia-per-simpatia, quella ammiccante del sorriso e del siparietto in orario aperitivo (che non fa alcun male e ci può anche stare), allora non andare oltre quell’incipit e chiudi il libro. L’hai comprato? Se hai tenuto lo scontrino te lo cambiano.
Qui non c’è poesia, non quella. C’è un apparato organico che appartiene a un tale che fa versi. Un sedicente “pendaglio da forca” che ne “scribacchia”, ne annota una sequenza. Sono spurghi da travasi interni.
“tutto parte dalle / vene”.
Infatti a ben pensarci i versi – comunque li si pensi – si fanno col corpo. Per fare versi bisogna saper ruotare gli occhi, deflettere i padiglioni auricolari, storcere la bocca, tirare fuori la lingua. Addeo queste cose le sa fare. Sloga il bulbo oculare, ribaltandolo all’interno: una lunga visione, spesso astratta, un retro-palpebra, un flusso disarticolato di impulsi biologici che scorre. Cellule epatiche secernono immagini a ritmo convulso.
Deflette i padiglioni: è teso nell’ascolto e pone il lettore in ascolto di quel flusso, che scatena enzimi attivi senza la presunzione della comprensione simultanea del senso (la grande illusione del linguaggio verbale). Storce la bocca: articola un ritmo scomposto, un polisillabo rapido e irregolare. Non è verso libero, come non lo è nessuno, altrimenti non sarebbe un verso. Sloga tendini (termini), spezza a capo spesso, distorce l’emissione del suo tambureggiare arterioso sincopato. E da buon autore, tira fuori la lingua: una lingua cellulare. Quella delle cellule nonché del cellulare, proprio nel senso di smartphone, fatta di faccine e cinguettii. La lingua cellulare dei tessuti: il poema stesso è il prodotto liquido denso di un apparato (mobile). Terminologia colloquiale ma chirurgica, ordinaria e a tratti impreziosita da tecnicismi biomedici o scientifici che lasciano eventualmente a Wikipedia una fonte per nuove suggestioni che vi riconnetteranno in qualche modo al succo (gastrico) della cosa. Ma la cosa resta ignota.
È una lingua apparentemente semplice se vivisezionata, che irradia (non sfoggia) significati; ricca di sensi intransitivi, nel suo essere (mai) chiara, in tutta la sua torbida limpidezza dichiarata.
“non mi offendo se / avrai afferrato / meglio di me tutto / quello che non / sapevo dirti”
Come il corpo, senza un motivo, il flusso po-ematico conquista ascolto. Non è detto che il corpo del poema restituisca un senso immediato, tanto meno un verdetto. Anzi. Non è la poesia-giudizio o giudiziosa che conquista gli emotivi per un giorno. Va ripercorsa in ascolto. Sono sintomi complessi. Ai segnali del corpo ci si adegua. Il poema è un referto, non una ricetta.
La struttura è dialogica, ci si rivolge ad un “tu” come nella migliore tradizione Novecentesca. Ma si sente forte e chiaro che il millennio è scavallato. Vi si possono riscontrare alcune coordinate. La prima risonanza (magnetica) è quella di un Ungaretti straziato, letteralmente, in una parafrasi audace, al termine della quale ci si potrebbe domandare di chi sia il cadavere, di chi la veglia, su quale fronte della carne. Il rimando ad Ungaretti non pare casuale, dal momento che il tema della corporeità in termini di crudo realismo, esulando delle estasi Dannunziane, irrompe prepotentemente nel Novecento italiano grazie a quei giovani cadaveri rivolti al plenilunio tra muri a brandelli, come a brandelli sono ormai i versi. Un altro referente, più recente, potrebbe essere Antonio Porta, il che porrebbe Addeo su di una linea che si discosta dal Neo-lirismo e si avvicina allo spirito dello sperimentalismo anni Sessanta, quella che in Porta (e alcuni episodi di Sanguineti) trova una pulsione di lungo corso e prende forma di poema. Il verso di Addeo risulta quindi a suo modo narrativo. Opache vicissitudini di cellule e cellulari. Forse quel che siamo diventati.
Prefazione di Giovanni Succi
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Di seguito alcuni estratti da Bile
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10/11/2020