“Doveva lavorare sull’unico terreno a suo favore: quello della vita.”
Romana Petri, scrittrice, traduttrice e critico letterario, autrice tra le altre opere, di Ovunque io sia, Ti spiego, Le serenate del Ciclone (vincitore del premio Super Mondello e del Mondello Giovani), Il mio cane del Klondike, Pranzi di famiglia, torna in libreria da domani con il romanzo Figlio del lupo edito da Mondadori che ha concesso a Satisfiction un estratto in esclusiva.
Si tratta di un vero e proprio atto d’amore, una narrazione che va oltre la biografia in senso stretto; stiamo parlando del romanzo di Jack London, della sua leggendaria esistenza la cui memoria arriva fino alle generazioni più giovani del nostro millennio, un’esistenza mirabilmente raccontata da Romana Petri che con questo libro si fa interprete di una sfida molto difficile: raccontare l’entusiasmo di vivere di un uomo incredibile che nella sua vita girovaga si è trovato a fare i più svariati lavori, ad essere protagonista di molteplici avventure, prima di realizzarsi come scrittore di successo tra i più prolifici e meglio retribuiti del suo tempo. In tutta la sua carriera letteraria scrisse oltre 50 volumi ed è stato, e probabilmente è ancora, l’autore statunitense più tradotto all’estero.
Ma prima di arrivare a questo visse le più incredibili avventure, i più intensi amori e lanciò incredibili sfide al mondo tanto che era solo un ragazzo ma sembrava aver già vissuto molte vite tanta era l’esperienza caricatasi sulle sue giovani spalle, per terra e per mare. Ancora bambino fece lo strillone di giornali (aveva dovuto lasciare la scuola per le condizioni di indigenza della famiglia), poi il pescatore clandestino di ostriche, il lavandaio, il cacciatore di foche (a diciassette anni si imbarcò come marinaio sulla Sophie Sutherland che andava a caccia di foche in Giappone); fu corrispondente di guerra, agente di assicurazioni, pugile, coltivatore e cercatore d’oro. Jack London fu un uomo che riuscì a trasformare la propria vita in leggenda inseguendo i grandi ideali, costantemente animato da una profonda passione politica. Dal 1894 aderì al socialismo battendosi in difesa delle fasce deboli della società. Un intenso passo del libro a riguardo recita: “E pensò che per diffondere le idee socialiste, le uniche realmente rivoluzionarie, in grado di cambiare un mondo ormai in declino, la sola strada fosse l’istruzione. Avrebbe fatto fatica nel suo Paese, ma poteva essere anche quella la sua missione: parlare alle masse, agli operai, ai giovani, e soprattutto scrivere racconti e romanzi nei quali dare voce agli sfruttati”.
Jack London fu un uomo di grande umanità e che non poteva certo stare fermo a lungo, un uomo, in una parola, animato dall’entusiasmo – la parola deriva dal greco e significa avere Dio dentro di sé – in preda al quale si gettava a capofitto nelle imprese più sbalorditive. Poi succedeva, riprendendo una volta ancora le parole del romanzo, che: “Quel Dio che aveva dentro di sé, ogni tanto usciva fuori e lo abbandonava affinché lo ghermissero i suoi demoni. Una sera, disperato, in preda a un forte sfinimento dell’anima e del corpo scrisse: Ognuno dovrebbe avere diritto al suicidio. Amare la vita non significa non sentirne sempre anche l’intenso e invitante sapore di morte.”
Romana Petri con questo libro è riuscita a dare vita ad un’opera straordinaria, di grande coraggio, il medesimo coraggio del “suo”Jack London raccontato mirabilmente con grandissima cura e passione e allora ecco che prendono forma nel romanzo le vicende di “un uomo sorpreso fra il rovello ispirato del grande narratore e la voce dispiegata del socialista che vuol parlare, da rivoluzionario, a sette milioni di lavoratori ma non rinuncia a farsi allacciare le scarpe perché non ha tempo da perdere, sorpreso fra il gioco dell’amore promesso, vissuto, tradito sempre ad alte temperature e il tormento di un fallimento sempre incombente, malgrado il clangore del mondo e il fuoco alto della fama.”
Silvia Castellani
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Non c’era mai stato niente di facile in vita sua. Non si era nemmeno mai lamentato troppo, ché alle complicazioni ci aveva fatto l’abitudine. A casa mancavano sempre i soldi, non faceva che sentire sua madre parlare di conti insieme al marito. L’unica certezza era che non sarebbero riusciti ad arrivare alla fine del mese e che nessuno faceva più credito alla loro famiglia. Era un continuo sbattere porte, anche se a sbatterle era solo sua madre, Flora Wellman, che sembrava lo facesse con metodo: cominciava con l’alzare la voce e poi, una dopo l’altra, sbatteva le porte di casa in un autentico crescendo. Qualche volta, insoddisfatta, tornava indietro e sbatteva di nuovo la stessa porta, magari proprio l’ultima, facendo sobbalzare i cuori di quelli che, in casa, le avevano contate e si erano già messi l’anima in pace.
Era una donna geniale, quando suo figlio era molto piccolo e le stava attaccato alle gonne aveva tenuto conferenze per le strade sullo spiritismo e la vita dopo la morte. La gente che faceva campanello intorno a lei veniva spesso colta da compassione e finiva col farle un po’ di elemosina affinché potesse dare qualcosa da mangiare a quel povero bambino bello come un angelo. Era battagliera e non si dava per vinta, al bambino faceva poche smancerie, ma gli voleva bene e cercava di provvedere a lui come meglio poteva. E pensare che veniva da un’ottima famiglia: il padre, uomo di grande ingegno, per lei aveva voluto solo insegnanti privati, lezioni di piano e abiti di lusso che venivano da New York. Poi, da un momento all’altro, si perdono i contatti tra Flora e i suoi genitori e per lei comincia una vita stravagante fatta di vagabondaggi e incontri poco fortunati. Ma ogni tristezza e principio di lacrime li teneva per sé, sapeva interpretare magnificamente il ruolo della madre mai preoccupata per il futuro.
A molti anni di distanza suo figlio Jack, che la adorava, era giunto alla conclusione che in verità non interpretasse nessun ruolo, era proprio fatta così. Aveva dentro di sé un entusiasmo talmente grande che la travolgeva. Aspettava l’evolversi degli eventi sempre con l’identica, infondata speranza. E ciò che più la rendeva sempre ben disposta era lo stato d’animo con il quale affrontava le attese: «Lieto e lietizioso» come diceva strizzando l’occhio al figlio che aveva sempre bisogno di sentire complice. Perché questo glielo aveva detto fin da quando era così piccolo da non capire nemmeno una parola: «Ricordatelo, Jack, le attese disperate sono quelle che non si avverano mai».
Poi c’era stato quel pomeriggio in cui insieme a suo padre, era andato a fare una passeggiata fuori città. Camminavano in silenzio lungo un ruscello e ogni tanto si fermavano a raccogliere i sassi più piatti e lisci da far saltare sul pelo dell’acqua. «Jack» gli disse il padre, «sei diventato molto più bravo di me.»
Quel buon uomo di John non sapeva che pesci prendere. Era da un po’ che ne parlava con la moglie. Se l’era detto da tempo che era ora il ragazzo sapesse. Ma poi John non faceva che rimandare. Più di una volta aveva chiesto a sua moglie: «Flora, ma perché non glielo dici tu?». Lei lo guardava di sbieco, come faceva quando le cose non la convincevano, e poi gli rispondeva: «Sono discorsi da uomini, John. Pensaci tu».
E così, tra un sasso e l’altro che sfrecciava sull’acqua a una velocità tagliente, a un certo punto John glielo disse che non era il suo vero padre. Jack aveva appena raccolto un sasso destinato a un lancio perfetto, ma invece di mettersi a lavorare di avambraccio per fargli prendere la giusta velocità lo fece ricadere a terra. Il rumore gli risuonò nelle orecchie in una strana eco che gli riempì la testa di ovatta. Si voltò verso John e gli chiese:
«E io chi sono?».
«Mio figlio, perché ti ho adottato e ti ho dato il mio nome. Certe volte non conta poi molto che a crescere un ragazzo sia il vero padre. Tu sei il mio vero ragazzo, Jack. E ti chiami London, come me.»
Lo strinse a sé. Non fu un vero e proprio abbraccio, fu più una strattonata. Rimasero così per un po’ e poi se ne tornarono verso casa dove li aspettavano Flora ed Eliza, una dei figli che John aveva avuto dalla prima moglie ormai morta da tempo.
La persona più importante , il perno della famiglia London, restava però Flora. Una eccentrica che si entusiasmava per ogni fallimentare progetto, dedita all’occultismo e alle sedute spiritiche. Se ne facevano molte in casa loro. Spesso arrivava qualcuno quando era già calata la notte. Jack ed Eliza venivano spediti a letto, ma mica dormivano, se ne restavano a origliare tenendo la porta della camera socchiusa. Al primo rumore si pizzicavano l’un l’altra con forza per scacciare la paura. Non si poteva gridare, solo mimare il grido spalancando a più non posso la bocca. Nel vicinato lo sapevano tutti cosa succedeva in casa London, dicevano anche di diffidare di quella famiglia, ma poi, al momento opportuno, a testa bassa, bussavano alla loro porta in parecchi per sentire il parere sulla tal cosa di un marito defunto, un fratello, un genitore che, come spiegava a tutti Flora prima di iniziare la seduta, parlavano per bocca di un certo Plume, un capo indiano. C’era anche chi veniva per parlare con un amante, dicendo però che si trattava di un lontano parente. Ma la verità veniva fuori al momento delle sdolcinate parole, delle manfrine che al piano di sopra Jack imitava alla perfezione. Si avviticchiava su se stesso davanti a sua sorella che doveva ridere in silenzio, come per i pizzichi, limitandosi a spalancare la bocca quasi fino a lacerarsela, e con gli occhi che si riempivano di tanta di quell’acqua da gettarla fuori come due rubinetti. Da quelle sedute se ne andavano via tutti soddisfatti. Spesso la gente si sdebitava portando delle uova, un po’ di pancetta, latte, pane. Che andavano benissimo soprattutto a fine mese, quando si faceva molta fatica a mettere qualcosa in tavola.
Flora era fiera di sé e le piaceva che anche la sua famiglia lo fosse. Spesso lo chiedeva esplicitamente: «Siete fieri di me, famiglia?». Quella domanda veniva accolta da grida vaccare, soprattutto da quel buon uomo di John che di lei era letteralmente pazzo. Flora non era certo una bellezza. Inoltre indossava spesso una parrucca di ricci neri perché per via di una antica febbre tifoidea le erano caduti quasi tutti i capelli. Da quella malattia le era rimasto il pensiero quasi ossessivo della morte. Del resto, dopo quella febbre era anche improvvisamente invecchiata, come se la malattia si fosse mangiata quel che poteva ancora restarle della giovinezza. Era fisicamente mortificata, sebbene non volesse darlo a vedere. E se si era data allo spiritismo, era perché la morte le ronzava sempre in testa. Qualcuno diceva che quelle febbri le avessero mangiato anche un po’ di cervello. Era molto simile a Jack, ma in quello strano modo che a volte solo avviene fra genitori e figli, era come se lui, pur rispettando le somiglianze, avesse assorbito da lei tutto il bello lasciandole soltanto i toni neutri. Ma quello che Jack aveva certamente preso dai suoi genitori era la forte personalità. Un timido d’assalto che sapeva sempre farsi valere, che contagiava chi aveva accanto, piaceva alle ragazze e stimolava la competizione dei maschi per riuscire a frustrarla poi quasi sempre. Se di una cosa era soddisfatto, era la sua muscolatura e la forza fisica. Aveva cominciato da ragazzino, quando durante le prime furibonde scazzottate ne aveva prese talmente tante dai teppistelli del posto che alla fine il suo atteggiamento era cambiato. Sfidava sempre lui per primo. E con quegli occhi di ghiaccio, la mascella sigillata, il pugno sempre più addestrato, si muoveva come un gatto rabbioso che si avvicinava solo per dare la zampata e poi balzare all’indietro. Alla fine, agli occhi degli altri ragazzini era davvero cambiato. Solo dentro di sé Jack sapeva che per combattere le sue paure la strada da fare era ancora lunga. Ma già a quell’età, a nemmeno dieci anni, aveva capito che paura e coraggio potevano camminare insieme anche per tutta la vita. A Frank Atherton, suo compagno di scuola e grande amico che gliene aveva chiesta la ragione, dopo aver sputato lontano Jack aveva risposto: «Chi non ha paura non può essere coraggioso. Giusto incosciente». E poi aveva fatto una espressione molto soddisfatta, un respiro potente gli aveva aperto il petto e si era messo a camminare ciondolando con andatura da marinaio, come avrebbe fatto ben presto, quando il 12 gennaio del 1893, giorno del suo diciassettesimo compleanno, si sarebbe imbarcato sulla Sophie Sutherland, una nave carica di cacciatori di foche che andava verso il Giappone. Un viaggio che sarebbe durato quasi un anno e gli avrebbe fatto due regali: il riposo da una famiglia sanguisuga e la visione degli immensi spazi fino a quel momento solo letti nei libri e poi sognati.
© Mondadori, 2020