Vito Molinari è uno dei padri della televisione italiana: l’ha tenuta a battesimo (è lui che, il 3 gennaio 1954, ne dirige la trasmissione inaugurale) e ne è stato protagonista per oltre cinquant’anni, dirigendo oltre 2000 trasmissioni, alcune delle quali davvero mitiche, da Un, due, tre con Tognazzi e Vianello a L’amico del giaguaro con Bramieri, Del Frate, Pisu e Corrado; da La via del successo con Walter Chiari e Carlo Campanini a Quelli della domenica che lancia Villaggio, Cochi e Renato, Montesano; da TuttoGovi alla celeberrima Canzonissima del 1962 con Dario Fo e Franca Rame, sospesa dalla censura del 1962. Dal 1953 è stato regista e spesso coautore di spettacoli di generi vari. Oltre che in televisione e in radio è stato, ed è tuttora, attivo in teatro: ha diretto una sessantina di operette, spettacoli di prosa e di rivista in tutta Italia. Da domani sarà nelle librerie con Paolo Fregoso, genovese edito da Gammarò.
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Paolo Fregoso, tre volte doge, cardinale, due volte papabile, Arcivescovo, politico spregiudicato, pirata, condottiero del papato, padre di cinque figli da due donne diverse, non è certo uno stinco di santo, né un antenato di cui gloriarsi particolarmente, nondimeno si fa ammirare per l’abilità nel trarsi d’impaccio in ogni perigliosa avventura; per la svagatezza con cui sa perdere di punto in bianco il potere conquistato a caro prezzo; per l’acume nel comprendere la natura umana e ricavare vantaggi da ogni occasione assaporando a pieno il gusto della vita: è un personaggio, insomma, che farebbe la gioia di ogni biografo. Da buon regista, Molinari ne tratteggia il profilo con tagli netti di luci ed ombre.
Il libro, impreziosito da 52 illustrazioni a colori, racconta con la rapida essenzialità della cronaca e il fascino immaginifico del romanzo, un mondo complesso, sullo sfondo del quale si muovono protagonisti dell’arte e della storia del XV secolo: sicché da quello che l’autore definisce uno sfizio personale, emerge anche un vivido bozzetto della Storia nazionale.
Michele Sancisi
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Dal primo governo consolare di durata biennale Genova passa ai podestà stranieri che stavano in carica un anno; poi si arrivò al Capitano del Popolo e alle Diarchie (due capitani del popolo che governavano assieme). Tutti questi cambiamenti, che avvennero tra il 1099 e il 1339, sono il segnale dell’instabilità di governo dovuta alla rivalità tra le famiglie. Nel 1339 si provò a risolvere questa instabilità affidandosi, con l’elezione di Simone Boccanegra, a una nuova forma di governo: il dogato a vita. In realtà il periodo del dogato a vita fu veramente turbolento a causa della rivalità di due famiglie: gli Adorno e i Fregoso. Le vicende delle due famiglie, spesso interrotte da signorie straniere chiamate per non far vincere la famiglia rivale, si protrassero fino alla riforma di Andrea Doria del 1528, che istituì il dogato biennale e diventò definitiva attraverso le Leges Novae del 1576 che ressero Genova fino alla rivolta giacobina del 1797. È nel secolo Quindicesimo, il più turbolento, che compare Paolo Fregoso (1428-1498). Vito Molinari sceglie questa controversa figura per raccontarci, in ma- niera davvero godibile, le vicende che tormentarono Genova in quegli anni del Quattrocento. Assieme a Paolo Fregoso, conosceremo gli intrighi e la disinvoltura con cui cambiavano i governi per calmare per qualche tempo le ambizioni e le aspirazioni dei rivali. Una lettura interessante anche per l’accurata ambientazione storica.
Franco Bampi
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Di seguito un estratto in esclusiva del libro Paolo Fregoso, genovese, da domani nelle librerie.
Un cittadino, reo di aver parlato in pubblico contro Paolo Arcivescovo, fu arrestato dagli sgherri di Ibleto Fieschi e gli fu data morte in modo cruento. In pubblica piazza, fu steso a terra, mani e gambe legate a corde che cingevano quattro cavalli disposti verso direzioni diverse. Agli incitamenti e pungoli dei bravacci, i quattro cavalli partirono al galoppo, smembrando a pezzi il corpo del poveretto. E i soldati ridevano e facevano festa…
Durante un ricevimento a Palazzo, Paolo rimase colpito dalla bellezza di una donna, giovine sposa al nobile Battista dei Montaldo. La donna aveva gentilmente ma fermamente rigettati gli omaggi, i complimenti di Paolo. Che si era persino spinto più oltre, facendo chiare proposte. Incredulo per il diniego, offeso nell’amor proprio, chiese l’aiuto degli scherani di Ibleto. Rapissero la donna e gliela conducessero. Questi penetrarono nottetempo nella dimora dei Montaldo e prelevarono la donna. Il marito Battista, sconvolto, si rivolse il mattino seguente all’Arcivescovo per veder conservati i suoi buoni diritti. Paolo assicurò che avrebbe fatto intervenire la guardia ducale e la magistratura.
Il giorno di poi la dama fu accompagnata e recata in sua presenza. Dignitosa, ferma, si presentò con un inchino: “Eminenza”. Paolo le sorrise: “Più che una Madonna…”
Lei lo affrontò decisa: “All’Arcivescovo mi inchino, al duca mi oppongo!”
“È l’Arcivescovo che vi desidera”. La prese per mano e l’accompagnò nella stanza accanto. La fece sedere sul letto. Poi la spinse indietro, fino a farla sdraiare. Le sollevò la gonna, le sottogonne, le abbassò le mutande.
Dopo, mentre la riconduceva verso l’uscita, le sussurrò: “Vostro marito Battista sarà fatto conte di Lavagna, con acconcio appannaggio, così potrete sempre ricordarvi di questo incontro”.
Pirata!
Il Fregoso resse il secondo dogato per circa un anno e mezzo, durante il quale, con l’alleanza di Ibleto Fieschi, preziosa specie sotto il profilo militare, cercò di riprendere il progetto del fratello Pietro, favorendo le corporazioni manifatturiere e insistendo su forme di tassazione diretta, capaci di sottrarre alla Casa di San Giorgio il ruolo surrogatorio che le attribuiva il governo dello stato. Ma l’opposizione del Banco di San Giorgio, unita a quella dei mercanti e dei gentiluomini, costrinse il Fregoso a una situazione insostenibile. I grandi mercanti, concentratisi a Savona, fecero crollare il mercato genovese, al punto che i “luoghi” di San Giorgio precipitarono da 100 a 23 lire. Quanto ai “gentiluomini”, tutti i nobili e gran parte dei cittadini più potenti, temendo per la propria sicurezza, avevano abbandonato la città, ritirandosi chi nelle terre di Liguria fedeli al duca di Milano, chi in Lombardia, accolti dallo Sforza con benevolenza. Francesco Sforza era spinto da questi emigrati genovesi a intervenire per cancellare l’anarchia e la tirannide da Genova. Lui ambiva ad acquisire la città, ma cercò un accomodamento con il Fregoso. Inviò a lui Giorgio Annone, che gli offrisse la protezione, mantenedolo capo della Repubblica, purché permettesse a una guarnigione sforzesca di stabilirsi nella fortezza di Castelletto.
Paolo, certo che lo Sforza dal Castelletto sarebbe presto passato a occupare il palazzo ducale, respinse la proposta. Lo Sforza cercò allora di radunare accanto a sé, dediti alla sua causa, i fuorusciti: a Prospero Adorno cedette Ovada; a Spineta Fregoso e a Jacopo Fieschi donò feudi. Persino Ibleto Fieschi, fido compare di Paolo, lo abbandonò.
Paolo si trovò così improvvisamente solo. La cosa che più lo angustiava era la defezione di Ibleto. Era al corrente che un esercito sforzesco molto numeroso marciava su Genova, condotto dal coraggioso capitano Gaspero di Vimercato; che una gran massa di gente raccogliticcia era stata riunita da Paolo Doria e Gerolamo Spinola. Inoltre era pienamente cosciente dell’odio generale rivolto verso di lui. Impossibile resistere. Occorreva abbandonare la città, cercare denaro e forze fresche per tornare da vincitore. Con uno di quegli imprevedibili gesti, con cui spesso aveva spiazzato i nemici suoi, si impadronì a forza di quattro navi in porto e, armatele, vi radunò i pochi suoi affezionati seguaci.
All’alba diede ordine di salpare. Le navi, a vele spiegate, presero il largo. Sui pennoni sventolavano le bandiere della Repubblica. Paolo, ritto sul cassero della Capitana, guardava dal mare allontanarsi la città, coperta da una poca nebbia, finché scomparve all’orizzonte.
Praticamente non più doge, anche se ancora Arcivescovo, Paolo per la prima volta si sentì libero, leggero da pesi e impegni pubblici.
A 37 anni Paolo era nel pieno della sua maturità. Con un gesto deciso e veloce si aprì la veste arcivescovile, strappò la lunga chiusura, la lasciò scivolare ai suoi piedi e si diresse alla cabina di comando. Poco tempo dopo ne uscì in abiti marinareschi, rozzi ma più adatti alla navigazione, al lungo cabotaggio a cui si accingeva.
Per ricomporre un esercito e recuperare l’autorità, occorrevano grandi somme di denaro. Costretto dagli eventi, Paolo aveva un’unica scelta: darsi alla pirateria lungo le coste del Mare Ligustico.
Aveva lasciato il Castelletto in mano a Bartolomea, vedova dell’ex doge Piero Fregoso, sostenuta da suo fratello Pandolfo, con 500 abili soldati di guarnigione; a guardia della città aveva confidato a Giovan Galeazzo degli Sforza. Un insieme troppo debole per opporsi alle truppe lombarde in arrivo. Che non tardarono ad assalire la città; il Vicomercato giunse fino a Cornegliano; Ibleto Fieschi, occupata la porta dell’Arco senza resistenza, si accampò nei giardini del colle di Carignano.
Era il 13 aprile 1464.
Il Vimercato, sollecitato da Ibleto, in breve occupò le porte e tutta la città.
Un entusiasmo incontenibile scoppiò all’istante: disgustata dalla tirannide del Fregoso, la plebe portò lo sforzesco sulle spalle, a Palagio, e lo salutò governatore. Per tutto il giorno fu un corteo di gente plaudente, che voleva vederlo e salutarlo come liberatore. Temendo un ritorno dell’Arcivescovo, il Vimercate volle per prima cosa acquistare il Castelletto. Chiese perciò che gli venissero inviate da Milano grosse artiglierie. Bartolomea cercava segretamente accordi col nemico, ma lo sforzesco comiciò tosto a battere le solide mura della fortezza con i pezzi d’artiglieria. Inoltre fece occupare Novi e Voltaggio, togliendole ai Fregosi. Bartolomea, spaventata, cercò l’accordo. Chiese 14.000 fiorini d’oro a titolo d’indennizzo e la restituzione di Novi e Voltaggio. Ottenuto quanto richiesto, cedette allo Sforza il Castelletto con i Fregosi che vi eran dentro. Erano passati quaranta giorni dalla partenza di Paolo, ex doge ora pirata. Dai genovesi, in una adunata, vennero scelti 24 deputati, parte nobili parte popolari, per andare a Milano, a rassegnare al Duca la Signoria. E per dare maggior solennità alla delegazione, furono accompagnati da 200 cittadini, di ogni ordine. Recavano lo scettro ducale, lo stendardo di San Giorgio, i sigilli dello Stato e le chiavi della città. Furono ricevuti in modo splendido dal duca Francesco e dai suoi sei figlioli.
Il duca Francesco, ritenendo per sé lo scettro, conferì lo stendardo a Galeazzo, le chiavi a Filippo, il sigillo a Sforza Maria, suoi figli. Accettava la signoria per renderle utile; concordi e ubbidienti, sarebbe stato per loro più padre che signore. I deputati giurano fedeltà al duca in perpetuo. Il governo sforzesco a Genova si sarebbe consolidato per quindici anni; così come il sistema delle Compere di San Giorgio.
Paolo pirata, intanto, scorreva di continuo le riviere con le sue navi corsare. Certo che la signoria della Repubblica fosse stata acquisita dallo Sforza, ne ebbe notizia certa dall’equipaggio genovese di un leudo, da lui assalito e depredato, raggiunto sulla rotta del trasporto di grano, olio e vino.
Il primo vascello a cui aveva dato la caccia era una brigoletta, innanzi al mare di Sestri Levante, l’Attilio, tutta bianca e invelata. Si accostò mostrando pacifici intenti, e quando le navi furono accostate, caddero le bandiere della Repubblica genovese sulle navi di Paolo e si alzò sul più alto pennone una bandiera nera pirata. Nell’arrembaggio alcuni marinai dell’Attilio furono uccisi o caddero in mare e affogarono. Nessuna vittima tra i marinai di Paolo, che si impadronirono del bottino. Dopo il saccheggio, la nave assalita fu abbandonata al suo destino.
Non mancava a Paolo la città, la nuova attività piratesca lo divertiva e lo incoraggiava ad esser più coraggioso, più audace, più crudele. Quando le sue quattro navi, tutte invelate, correvano veloci sul mare, lo possedeva un senso di estrema libertà, un’euforia incontenibile. Paolo non doveva temere agguati dai suoi, aveva una ciurma fidatissima. Viveva una sensazione insolita: il comando senza tema di segreti patteggiamenti, di tradimenti.
Dalla coffa arrivò il grido: “Nave a babordo!”
“Una donna” – pensò. Ecco, gli mancava una donna. Dopo alcuni mesi di astinenza forzata. E ripensò alla sua prima vera donna. Una puttana, naturalmente. Molto giovane, esile, aggraziata. Esercitava il suo commercio nella zona riservata alle prostitute, appena sotto il Castellaccio. Una volta era riuscito a mettere insieme la somma richiesta e aveva potuto essere accolto dalla ragazza. Una piccola stanza, un buco appena, ma tutto estremamente ordinato e pulito. La ragazza aveva acceso una candela, di modesta lunghezza, e si era spogliata. L’incontro era durato il tempo che la candela si consumasse e si spegnesse. Non troppo lungo, ma sufficiente perché Paolo ne ricordasse bene tutti i particolari. E si rendesse conto che non avrebbe mai più potuto fare a meno delle donne, popolane, nobili o bagasce.
“La ragazza della candela”, così era chiamata. Una volta fu fermata e arrestata nel porto. Era vietato alle puttane uscire dalla loro zona, ma la ragazza aveva protestato dicendo che se contribuivano, con le tasse loro imposte sulla loro attività, alle nuove costruzioni nel porto, avevano ben il diritto a constatare il procedere dei lavori. Indimenticabile, la ragazzina della candela. Dopo di lei… chi era stata? Ah, sì. Una nobile signora, amica della madre. A lui sembrava quasi anziana. In realtà era ancora giovane e avvenente. E le piacevano molto i giovinetti imberbi. Gli incontri cominciavano con l’offerta a Paolo dei dolcetti di cui era ghiotto: i canestrelli, gli amaretti, specialmente i frutti canditi, una delizia. Dopo essersi attardati tra le lenzuola, la nobile dama, se Paolo si era ben comportato, in ringraziamento rinnovava l’offerta dell’ultimo candito.
1. Viva la libertà
Tra una incursione e l’altra Paolo trovò il tempo di recarsi a Venezia a raccogliere denaro a prestito. Ma tornava sempre alle sue imprese piratesche, colpendo i commerci genovesi su sale e grano, prodotti vitali.
Ogni tanto Paolo si recava in terraferma, come quando andò a Mantova, dove avrebbe dovuto risiedere in domicilio coatto, per decreto del duca Galeazzo. Alla corte di Mantova Paolo sistemò i più giovani figli, Fregosino e Alessandro, avuti dalla sua ultima relazione genovese molto chiaccherata fino a provocare scandalo, con una novizia, conosciuta durante una confessione. Assolta, dopo averle assegnato tre pater, ave, gloria per penitenza, l’aveva invitata a recitare insieme le preghiere. Dal pregare al portarsela a letto fu breve il passo.
Gli altri tre figli, Tommaso, Agostino e Fregosina, li aveva già sistemati da tempo.
Le scorribande di Paolo pirata mantenevano l’inquietudine negli animi dei cittadini, ma soprattutto toglievano al commercio la sicurezza. Così a Genova, per rintuzzare l’audacia del Fregoso, furono armate quattro navi. Ne prese il comando Francesco Spinola, abile comandante, che partì subito per cercare di incontrare il Fregoso. Lo inseguì a lungo, finché, scovatolo all’uscita del porto di Villafranca, lo assalì. Ma Paolo, con abile manovra, si sottrasse e riuscì a dileguarsi. Gli scontri tra le navi genovesi e quelle pirata furono numerosi; spesso Paolo dovette subire perdite tra i suoi uomini. Braccato per tutto il Tirreno, fu raggiunto dallo Spinola nelle acque di Corsica. Lo scontro fu cruento, e difficoltoso anche per il vento forte e il mare grosso. Messo alle strette, disperando di salvarsi, Paolo decise per un atto estremo: abbandonare le sue navi. Con alcuni suoi compagni sopravvissuti, si affidò a una piccola barchetta, che riuscì a superare illesa le grandi onde che la aggredivano e portò i naufraghi a rifugio e scampo. Sfiniti, Paolo e compagni si addentrarono nelle selvose montagne di Corsica, un’isola in cui i Fregosi erano sempre stati bene accetti dagli abitanti, dallo spirito fiero e indipendente. La fortuna sembrava aver voltato le spalle a Paolo e pareva proprio che questa volta l’avventurosa vita del Fregoso fosse giunta ad una misera fine.
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