È uno dei luoghi più infimi della terra il quartiere di Petare a Caracas, un agglomerato di costruzioni precarie e fragili, appese a un filo come le vite di chi vi abita tra violenza, povertà morale, squallore. Qui si muovono, combattendo per una quotidiana sopravvivenza, i personaggi de Il rianimatore di Antonella Presutti (Arkadia Editore, Collana SideKar) che dai margini di tutto, con l’orgoglio schiacciato da una brutalità disumana che li circonda, vanno alla ricerca di un riscatto che si fa esemplare e che passa attraverso un gesto semplice di cura che è amore, riconoscimento dell’altro, pietas e dignità.
Apparentemente slacciate tra di loro, immerse in un’atmosfera quasi onirica, ci passano sotto gli occhi le esistenze di chi in Venezuela era emigrato in cerca di una nuova possibilità mai concessa e rimane tra vite dimezzate, fra il ricordo struggente del paese di origine e la realtà da affrontare ineluttabile, sempre tragicamente uguale, e di chi, invece, tra gli sconfitti è nato ma ricerca – pur senza conoscere la lezione di Calvino – bellezza anche nell’inferno, che elevi e dia unità e senso alla propria vita.
Le voci si moltiplicano, si fanno coro, e portano un’urgenza, l’esigenza della parola a sanare ferite.
E del recupero della memoria, delle radici, attraverso la descrizione di piccoli, poveri oggetti amati e portati dai protagonisti sempre con sé: una lampada rubata, tra questi, ma soprattutto vasi colmi di piante da rianimare, come da titolo, appunto, a cui dare nuova vita, in un metaforico processo di rinascita e compensazione delle offese della vita.
Si dovrà giungere a metà del libro per individuare la cornice che lega tutto, i legami sottotraccia che annodano i singoli racconti e i personaggi, uno su tutti il rianimatore, colui che si fa carico di recuperare piante ormai avvizzite che attraverso la cura porta a un’intima trasformazione, accompagnandole verso la speranza.
In realtà, senza voler svelare troppo della trama, oltre a chi rianimatore si autodefinisce diversi sono i protagonisti dei racconti che rivestono lo stesso ruolo, dandoci l’impressione – sperabilmente fondata – che non sia preclusa a nessuno la possibilità della grazia della guarigione dell’altro.
Antonella Presutti sceglie una prosa asciutta, adeguata all’ambientazione cruda delle vicende eppure di grande suggestione, in alcune pagine di vero incantamento prossimo al realismo magico sudamericano romanzo, con cui condivide ambientazioni e soprattutto atmosfere.
Inanella vite straziate e dominate da passioni – alcune prese da episodi di cronaca – che solo attraverso lo sforzo immaginifico di uno sguardo altrui volgono verso la luce: su tutte, quella di una donna ligure di famiglia altolocata che sceglie di seguire l’amore, un marinaio venezuelano, abbandonando agi e scorci di un’abitazione per cui proverà dolorosa nostalgia per sempre. Si ritroverà all’altro capo del mondo, disconosciuta dal padre, ogni sogno infranto, oppressa da una profonda solitudine: una figura tragica, alta, a cui Presutti modella addosso sapientemente un linguaggio lirico, dal tono calibrato e accorto, di eleganza e bellezza. Una lingua degno di un prezioso fiore gentile: di quelli che, appunto, si fanno strada comunque, anche tra le aspre pietre dell’inferno del mondo.
Vi proponiamo l’incipit
La prima volta uno non prende coraggio. Il passato non se ne va così rapidamente come si potrebbe pensare. Diventa friabile come il muro di chi è scomparso senza memoria. Mi viene in mente il cimitero della mia città con i suoi viali, alcuni antichi, altri moderni, come i corridoi dei grattacieli di vetro e cemento, ordinati e lunghi, pieni di luce e impenetrabili. È come inoltrarsi in una notte senza Luna o, piuttosto, in una giornata inglese di nebbia, nella quale si diventa cercatori enigmatici. Mi colpiscono le lapidi con quelle frasi incise per testimoniare un amore e un dolore assoluto. Tra le tante epigrafi, ce ne è una meravigliosa: “Alle piante, agli animali che ho amato. Ci ritroveremo in un punto”. Ci penso seduta al Sole di questo autunno che è estate, sulla panchina di fianco al portone della mia casa, in fondo al viale degli ippocastani. Cadono le foglie, cadono le castagne con regolarità, rimbalzano ai miei piedi. Intorno nessuno, una bellezza straziante, una luce abbagliante, un’immensità che mi travolge. Qui ho scoperto che la bellezza può essere straziante perché troppo al di sopra delle nostre forze per assumerla nel cuore oltre che negli occhi, ma straziante anche perché penso alla fine che arriverà, all’impossibilità di bloccare la luce tra le foglie. Tra poco mi riconquisteranno il trascorrere di tutto, il dolore al collo, il volo di una mosca, i gatti che strisciano tra l’erba. Ci sarà spreco, abbandono.
Anna Vallerugo