«La prima volta che ha dormito sotto un tetto, qui in Italia, è stato in cella. E fuori ha fatto cose di cui si vergogna moltissimo, anche se, mi dice, non ha mai fatto male a nessuno se non a se stesso. In lui la voglia di libertà che hanno tutti convive a fatica con un senso di colpa enorme e un’ incertezza altrettanto grande sul futuro, visto che, nonostante l’ottima condotta, non ha nessuna casa a cui tornare una volta scontata la pena.»
Francesco “Kento” Carlo, Barre. Rap, sogni e segreti in un carcere minorile, Minimum fax 2021
Ho avuto il piacere e la fortuna di poter intervistare Francesco “Kento” Carlo sulla pagina facebook della casa editrice Minimum Fax, a pochi giorni di distanza dalla pubblicazione di Barre. Rap, sogni e segreti in un carcere minorile.
Francesco “Kento” Carlo è un rapper di Reggio Calabria, considerato tra gli artisti più maturi e concreti della scena. Con dieci dischi alle spalle si è esibito in ogni angolo d’Italia e all’estero e ha collaborato con decine di artisti noti ed emergenti. Soprattutto ha raccolto intorno a sé il consenso di un pubblico vasto ed eterogeneo, anche per la sua attività sociale. Da oltre dieci anni, per esempio, tiene corsi di scrittura rap e poesia dentro carceri, comunità di recupero e scuole. I suoi sono veri e propri laboratori in cui i ragazzi vengono stimolati a incanalare la rabbia e l’insoddisfazione verso quelli che sono processi creativi. A fine gennaio Kento ha pubblicato in contemporanea un libro per Minimum Fax e uno street album intitolato Barre Mixtape, già su tutte le piattaforme digitali e presto in vinile per Aldebaran Records.
La sua carriera di rapper solista inizia con Sacco o Vanzetti (2009), lavoro in cui rivendica l’eredità del rap combattente degli anni Novanta. Fa parte dei Kalafro, collettivo rap/reggae/folk molto legato alla terra di origine, il cui album Resistenza Sonora (2011), è passato alla storia come il primo disco “prodotto dalla mafia” perché finanziato con i proventi dei beni sequestrati ai boss. Nel 2014 si è recato in Palestina nell’ambito di Hip Hop Smash the Wall, progetto di collaborazione militante con artisti della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. In quell’occasione, ha inaugurato il proprio seguitissimo blog sulle pagine del Fatto Quotidiano, dove continua a scrivere di musica, cultura, attualità e politica. Nel frattempo ha iniziato un lavoro di ricerca sul rapporto tra rap e poesia, che lo vede impegnato come membro del consiglio direttivo della LIPS – Lega Italiana Poetry Slam. Nel 2018 il suo libro, Resistenza Rap, è stato tradotto e pubblicato negli Stati Uniti, con l’autore impegnato in una serie di date di presentazione. Ha scritto per Il Castoro un manuale pubblicato nel 2020 dal titolo Te lo dico in rap.
Raccontare l’esperienza di “insegnante di rap” nelle carceri minorili tramite le parole di un libro non è stato semplice, per lui. Eppure con una grazia tutta letteraria, nelle 177 pagine del volume, è riuscito a raccontare la sua esperienza maturata in oltre dieci anni di laboratori in vari istituti penitenziari italiani, a contatto con centinaia di ragazzi detenuti, insieme ai quali ha scritto strofe, ritornelli e punchline. A lungo è stato dibattuto tra l’incertezza e la voglia di raccontare le sue ultime esperienze in carcere, poi è prevalso il desiderio di far capire l’importanza sociale del rap, attraverso rime e argomentazioni, per questi giovani ragazzi, poco più che bambini.
Il rap che diventa svago e cura nelle ore tutte uguali per loro, sbattuti dentro quattro mura. Libro non semplice, anche perché, scrivendolo, era difficile non pensare alle conseguenze sulla possibilità di continuare a lavorare ancora in carcere. Alla fine ha prevalso la volontà di raccontare certe verità, costi quello che costi.
Una grossa spinta a portare fuori la voce di questi ragazzi è stata innescata dalla lettura de I ragazzi della Nichel, dell’afroamericano, due volte Premio Pulitzer, Colson Whitehead.
Francesco “Kento” Carlo ci porta nelle carceri minorili e usa la narrativa per raccontare le storie di chi finisce dentro non solo per colpe o delitti, ma più spesso per un sistema che penalizza chi ha una diversa condizione economica, culturale e sociale. In una delle sue ultime esperienze, gli è toccata la sezione 323, cioè quella con i piccoli dai quattordici ai diciassette anni. Da lì in poi ad animare i pomeriggi dei suoi laboratori saranno una decina di quelli che lui chiama “ragazzacci”. Altro non sono che i moderni ragazzi di vita, con una quotidianità segnata da questa esperienza dietro le barre di un carcere.
La legge impone di non rivelare nulla che possa collegare le vicende narrate ai protagonisti reali, ma leggendo il libro viene naturale chiedersi come mai nel 2021 possa essere un istituto con le sbarre l’unico strumento riabilitativo per un ragazzo adolescente con del disagio addosso. Si scopre che il costo di ognuno di questi ragazzi all’interno di una struttura raggiunge cifre esorbitanti e che esiste una forma di classismo nel sistema della giustizia minorile italiana, per cui a finire dentro spesso non sono i più colpevoli ma, semplicemente, gli emarginati: chi occupa gli ultimi gradini per condizione economica, culturale e sociale.
Kento racconta, nello spazio temporale che va dalla fine di una estate al Natale successivo, come ci si guadagna la fiducia di questi ragazzacci, senza essere paternalistici ed evitando di solidarizzare troppo con le guardie carcerarie, in un luogo con barre di metallo alle finestre. Sono altre barre, quelle con cui vengono definiti i versi di una strofa rap, a conquistare l’attenzione dei ragazzi.
Far ascoltare e vedere videoclip di rapper americani e fornire ai ragazzi strumenti di lettura può essere parecchio attrattivo. Certo, anche giocare sul binomio rap e carcere, così da stimolare lo spirito critico dei giovani detenuti di fronte alle vicende e ai grandi numeri e consensi di rapper come 6ix9ine o Tupac o The Notorius Big.
A comporre il libro sono venti capitoli abbastanza brevi, ognuno offre una scrittura molto fluida e titoli molto suggestivi. Catturano l’attenzione del lettore quelli col titolo di Rap di Adrian o di Hicham o di Abdou o di Youssef, Isaia e Layla. Sono i nomi fittizi di ragazzi di cui non si conosce la colpa di cui si sono macchiati e neanche la pena inflitta. Però si apprende che Adrian non ama il rap eppure ama scrivere e legge Omero e Melville nella biblioteca scolastica e gira con una cartella gialla piena di fogli volanti. Qui scopriamo che Hicham, la faccia da bambino e mille tagli inferti sulle braccia, la prima volta che ha dormito sotto un tetto in Italia è stato in carcere, mentre fuori ha fatto cose terribili di cui si vergogna, ragione per cui, come molti altri, vive un senso di colpa indicibile. Come lui sono tanti quelli che vivono la grossa incertezza del futuro non avendo una casa cui far ritorno, una volta scontata la pena.
Sono tutti bravi a rappare e a eseguire brani in arabo o in italiano, come Sam o Abdou. Quest’ultimo, occhi neri e tristi, diventa la mascotte del gruppo per le battute a raffica. Abituato alla strada, si è adattato bene alle regole del carcere perché non è mai stato tanto bene come lì.
C’è chi rappa al presente e non pensa al futuro o al domani, come Youssef, il ragazzo con gli auricolari sempre piantati nelle orecchie durante tutto il laboratorio. In una mano ha solo tre dita, dicono che sia soggetto a violenti scatti d’ira. Fa finta di essere distratto, ma cerca comprensione da tutti. Per ciascuno di loro, è difficile prepararsi al futuro che li aspetta là fuori, soprattutto se si pensa di essere sbagliati e di valere poco, come accade a Isaia o a Layla. Layla, la ragazza della sezione 317, le cui lezioni avvengono attraverso la collaborazione delle maestre d’arte. Alle correzioni apportate alle sue strofe risponde sconfitta “Tanto, a che serve?”.
Accanto ai loro ci sono tanti altri nomi. Nomi di ragazzi che all’improvviso smettono di frequentare i laboratori. Nomi di ragazzi che sono usciti, finalmente liberi. Nomi di ragazzi che sono diventati grandi e devono trasferirsi nel carcere per adulti. Nomi di ragazzi che non sono mai rientrati dai permessi premio e chissà che fine hanno fatto.
Un libro che prende a pugni, Barre, con le improvvise docce gelate che queste storie di giovani vite producono. Libro che fa riflettere e mette addosso anche tanta malinconia per via della rassegnazione che anima le giornate di molti di questi ragazzi. Ragazzacci che restano bloccati tra le barre di un sistema antiquato e sorpassato, con operatori e responsabili della custodia, la maggior parte delle volte, poco preparati e competenti. Impressiona molto la sensibilità dell’autore nell’aver saputo trattare, da grande narratore, tutto questo materiale umano incandescente, condannato alla reclusione dietro barre che davvero poco servono a correggere.
Antonello Saiz