Prendi una penna pungente e ironica, come quella di una scrittrice di inizio Novecento quale Irene Brin. Metti poi due curatori frizzanti come Tommaso Mozzati e Flavia Piccinni… Il successo di una serata è assicurato!
Una grande esclusiva per il gruppo Facebook di Book Advisor, la serata di venerdì 11 dicembre. In quella data abbiamo fatto la prima presentazione assoluta de Le perle di Jutta, unico romanzo (per giunta inedito) di Irene Brin. Il romanzo è arrivato in libreria dopo quasi novant’anni nella Collana Père Lachaise delle Edizioni Clichy, grazie alla cura proprio di Flavia Piccinni e Tommaso Mozzati. Le Edizioni Clichy, si caratterizzano per una spiccata ed evidente francofilia, anche i titoli delle diverse collane richiamano direttamente luoghi di Parigi. Nella Collana Père Lachaise, però, troviamo classici come Melville o Stevenson o Alcott, così come Antonia Pozzi, Antonio Gramsci, Ottiero Ottieri e adesso Irene Brin.
Frugando nella soffitta della villa di famiglia, a Sasso di Bordighera, in un polveroso bauletto di pelle viene ritrovato un dattiloscritto inedito appartenuto a Maria Vittoria Rossi, da tutti conosciuta con lo pseudonimo di Irene Brin. A ritrovarlo, il figlio della sorella Franca, Vincent Rossi, neurobiologo di fama mondiale. Si tratta di cinquanta fogli dattiloscritti numerati – e di altri dodici fogli contenenti revisioni e riscritture – intorno ai quali, come spiegato nella breve introduzione, hanno lavorato Tommaso e Flavia in questi anni. Ci hanno così restituito, nella forma il più possibile organica e affine alle intenzioni originarie dell’autrice, un romanzo di grande respiro.
Irene Brin, solo uno dei tanti nom de plume accanto a Marina, Geraldina, Mariù, Contessa Clara, Oriane. Dietro tutti si celava Maria Vittoria Rossi, autrice di articoli su giornali come Il Lavoro di Genova o rotocalchi come Omnibus e Il Borghese in un tempo lontano in cui il giornalismo era un ambiente prettamente maschile. Irene Brin, una grande firma riconosciuta, moderna e incredibilmente avanti, almeno nel giornalismo di costume e sulla moda e sull’arte e il cinema, oltre che una maestra di eleganza nel galateo nell’Italia del dopoguerra e che ha aperto la strada alle varie Fallaci, Cederna, Aspesi nei decenni successivi. Fu la prima giornalista italiana a scrivere di moda sulla prestigiosa rivista Harper’s Bazaar dopo che, mentre un giorno passeggiava in Park Avenue, fu notata dalla mitica caporedattrice Diana Vreeland per l’elegante tailleur Fabiani che indossava.
Fu invece Leo Longanesi a creare per lei il nome Irene Brin, che la seguì fino alla morte, avvenuta nel 1938. Proprio l’anno in cui iniziò a mettere mano a quello che era per lei il romanzo della vita, come viene spiegato nella magnifica prefazione di Tommaso Mozzati dal titolo Irene e l’inganno del romanzo.
La postfazione di Flavia Piccinni ripercorre, invece, le tappe di una vita di società melanconica, con questa inquietudine da spirito libero addosso mentre segue il marito, Gaspero del Corso, nel suo peregrinare da ufficiale dell’esercito. Un grande amore, che ha sfidato pure le presunte voci sulla loro omosessualità e che li ha portati a condividere anche una passione per l’arte. Insieme fondano la Galleria L’Obelisco in via Sistina a Roma, centro nevralgico della cultura e dell’arte nella capitale durante gli anni Cinquanta, inaugurata con una mostra di Morandi e che negli anni diventa punto di riferimento di artisti come Guttuso, Vespignani, Burri, De Chirico.
Una delle donne più libere, controverse e sfuggenti dell’intero Novecento, Irene Brin, che fu la prima a battersi per affermare nel mondo uno stile tutto italiano nella moda e nel gusto.
Donna elegantissima, icona di stile e di cultura. Si dice che leggesse almeno un libro al giorno, sfruttando per questa sua passione anche il tempo che trascorreva nella vasca da bagno.
Corrispondente di guerra dalla Jugoslavia, scrittrice, mercante d’arte e altre mille donne in una sola donna, non solo legge un libro al giorno ma ne traduce uno a settimana e a un certo punto decide di scrivere.
Scrive il romanzo della vita, Le perle di Jutta, che dal carteggio con la madre e la sorella apprendiamo sia stato iniziato dopo il matrimonio con Gaspero nel 1937 e dopo il soggiorno prima a Merano e poi a Civitavecchia. Romanzo incompiuto, che termina con la frase mozza “Non poteva amare Maby perché era una…”. Con gli anni Quaranta la Brin comincia a pensare di utilizzare quel manoscritto come sceneggiatura per il cinema. Interi paragrafi vengono poi cannibalizzati dalla stessa Brin in novelle e racconti, che pubblica sui vari rotoicalchi con cui collabora.
La presentazione del romanzo l’abbiamo fatta partire con la musica e la voce pastosa, rauca e solenne di Zarah Lender, nota cantante del tempo. Un disco di Zara Lender viene messo sul piatto del grammofono da uno dei protagonisti del romanzo, Sandro, durante un pranzo elegante a casa della contessa Martha Zollern. Tutto si svolge in una sola serata, in una nota località di villeggiatura alla moda austroungarica e tra le due guerre. Tante tipologie umane attorno a una tavola ben imbandita in casa di questa contessa vestita di raso bianco, che ha sposato un principe asburgico con un matrimonio morganatico: nobili decaduti; il principe Flavio; donzelle esangui e in cerca di sistemazione come Marianne, che arriva prima di tutti e non viene considerata da nessuno; donne mature diabolicamente affascinanti come la marchesa Chantal di Pontano con i suoi due figli; poi Attendolo, il decoratore che è là solo per mangiare; magnati facoltosi come Enrico e suo fratello Laf; poi Antonia, la figlia della protagonista del titolo, pallido simulacro di Jutta. Già, lei, Jutta, e le sue perle perdute perché perde sempre qualcosa: l’occhialino, il cane, un guanto, un marito… Jutta non è presente a quella cena eppure è saldamente presente durante tutta la serata nelle chiacchiere dei convitati. Questa seduttrice incantevole, con quattro matrimoni alle spalle, rimane fissa nei discorsi delle dame e nei pensieri eccitati di tutti i maschi.
Scoprendo la vita della contessa Jutta Hohenau, veniamo via via a conoscere personaggi incredibili e senza tempo. La cena elegante prosegue, tra una portata e l’altra, fino all’epilogo anzi, fino ai tanti epiloghi. Perché poi la notte andrà avanti in modo diverso per ognuno dei convitati, come scoprirà il lettore: la pesante notte di Martha; quella di Laf, Sandro, Attendolo e tutti gli altri.
Quale sarebbe stato il finale del romanzo non lo sappiamo. Il testo, come abbiamo detto, a un certo punto si interrompe bruscamente. Vite umane e figurine demodè dentro un caleidoscopio, come quello citato nella storia di Desiderata. Personaggi incredibilmente contemporanei tra sogni aristocratici e ricordi felici del tempo che fu, vizi e ambizioni e amori passati, il tutto raccontato con la prosa ironica e pungente a cui ci aveva abituato nei suoi scritti la Brin.
Una scrittura precisa, densa, tagliente, capace di condensare in una sola notte aspirazioni fallite, desideri di rivalsa, amori naufragati e tentativi di nuove conquiste. Con immagini che rimandano sicuramente a Proust, ma anche alla coralità della Woolf, Irene ci costringe a soffermarci su ogni personaggio, poi su ogni frase e parola perché ognuna ne richiama altre, ne racchiude altre. Un libretto piccolo e raffinato, colto e denso di tutta quell’elegante e sorprendente capacità narrativa che aveva questa donna icona di stile e che continua a riservare sorprese anche a oltre cinquant’anni dalla sua scomparsa.
Antonello Saiz