Quella che vogliamo.
Come si ride quando l’immaginazione raggiunge tutti gli incroci, gli angoli delle strade. Entra negli alberghi, nelle case a schiera illuminate, arriva fino a quelle malridotte ai piedi di un’altura dove i cespugli crescono abbozzati. Arriva in un locale dove un giovanotto suona il sassofono e c’è l’odore che fa la pelle del pollo quando strina sul fuoco misto a quello delle candele bianche da poco spente».
Hilary Tiscione, Liquefatto, Polidoro Editore 2021
Non è un libro di trama, quello di Hilary Tiscione, ma di scrittura sensoriale, piena di impressioni e percezioni come nell’estratto riportato, dove con l’utilizzo di una lingua affilata si riescono sempre a trovare soluzioni per raccontare stati d’animo.
Abbiamo cercato di far capire ai lettori forti proprio questa particolarità, a partire dal titolo, il 18 luglio sulla pagina Facebook della casa editrice Polidoro, durante un secondo Agguato/Incursione della Domenica, dopo quello del marzo scorso con Alfredo Zucco e La memoria dell’uguale.
Questa volta abbiamo incontrato due giovani autori talentuosi, Hilary Tiscione, appunto, con il suo romanzo, Liquefatto (edito da Polidoro Editore), e Luca Brunoni, con il suo terzo romanzo dal titolo Indelebile (edito da Gabriele Capelli Editore).
Titolo numero undici della collana “Perkins” della casa editrice napoletana, Liquefatto ha per protagonista Maddalena, una donna annoiata che tradisce macchinosamente il compagno Romano e da cui riceve, a un certo punto, in regalo due biglietti per Los Angels, nonostante le scarse attenzioni che ormai le riserva da anni.
Una storia sospesa e immobilizzata quella tra Maddalena e Romano, dove l’interesse dell’uno per l’altra, e viceversa, sembra essersi assopito e cristallizzato, se non quando prontamente stimolato dagli eccessi della droga o dell’alcool.
Il senso di colpa dei tradimenti sembra divorare Maddalena e questa condizione sembra amplificarsi quando scopre di essere incinta. Decide di partire lo stesso per gli Stati Uniti con l’amica Lia e incontrare Tito, attore fallito e vecchia conoscenza, che vive in California una vita sregolata e vuota.
I tre decidono di intraprendere un percorso on the road nel deserto del Mojave per raggiungere Las Vegas e il famigerato hotel El Cortez.
Maddalena, con addosso quella marea di sensi di colpa e in aggiunta quella gravidanza che pesa in ogni sua scelta, quasi usa lo stordimento e lo sfinimento della lunga traversata per anestetizzare i suoi tormenti.
Viaggio di fuga e consolazione nei progetti di Maddalena, ma che, tra notti insonni, feste stravaganti, la reale fatica fisica e il corpo che lancia continui segnali di cedimento, riesce solo a innescare una profonda crisi esistenziale. L’esatto contrario di quello che aveva programmato.
Non c’è redenzione o via di scampo in quel viaggio: partita con la convinzione di lasciarsi dietro la noia e la monotonia di una situazione congelata, in quella folle corsa negli spazi sterminati di un deserto, Maddalena finisce per consumare proprio sul suo corpo una caduta verso il buio.
Una abile narrazione giocata tutto sul filo sottile della ricerca della parola esatta, per descrivere il progressivo decadimento e la liquefazione di ogni certezza. Soprattutto un linguaggio tagliente, sferzante nel suo distacco metodico, teso a raccontare al meglio la perdita di ogni speranza per quello che poteva essere nella vita e non è stato.
È la voce in prima persona di Maddalena a registrare, con precisione chirurgica, questa discesa agli inferi, senza trascurare nessun fluido biologico, nessun passaggio, nessuna suggestione, nessuna descrizione, fosse pure la fredda cronaca di un amplesso.
Lo sguardo resta sempre attento anche su tutto quello che ruota intorno, dalla sporcizia di un divano polveroso alle scatole di preservativi fino alla natura insolita di un luogo deserto. Registra tutto e tutto riporta con ossessività e asprezza. L’invenzione di questo linguaggio potente, preciso, asciutto ma anche audacemente visionario, conduce nella zona di narrazione sensoriale di cui parlavamo in apertura. Zona che porta sempre al centro il corpo della protagonista, all’inizio oggetto di desiderio di maschi cocainomani e bizzarri, poi abusato dalla stanchezza e da sostanze, ventre che accoglie una nuova vita, però non desiderata, concepita per errore.
Richiede coraggio, parecchio coraggio scavare nella sofferenza e nel dolore – farlo attraversare tutto quel dolore – fino a raggiungere il cuore di un incendio col rischio di restarne bruciati.
Partita da Milano alla ricerca di un senso da dare alla sua vita e alle sue scelte, Maddalena finisce per ritrovarsi completamente ustionata, in un vero percorso di autoflagellazione. Una vita guasta la sua, come lei stessa ammette. Con la consapevolezza finale di esser costretta a cercare le braccia fredde del perdono in una preghiera fatta stando seduta a terra.
Impressiona molto questa lucida analisi di un fallimento. D’altro canto Hilary Tiscione è bravissima a condurci in un territorio scomodo, claustrofobico, di sfida. Le paure di Maddalena assalgono il lettore, che finisce per entrare nei meccanismi della sua testa, a capire le sue problematiche e a cercare una via di salvezza per lei, una possibile soluzione.
Il clima, a mano a mano che ci si avvia alla fine, diventa confuso e ancora più claustrofobico. Inoltre, con un cambio di registro, si viene trasportati su una linea di confine dove non è possibile distinguere la realtà dalla finzione. Si arriva, dopo quasi 170 pagine, a sentirsi come dopo una traversata, fatta però con grande partecipazione, talmente coinvolto da questa architettura particolare che quel vento caldo e soffocante del libro ce lo si ritrova appiccicato addosso.
Antonello Saiz