Antonin Artaud (1896-1948) fu personaggio di spicco del rinnovamento della cultura francese ed europea – nel teatro, nel cinema e nella letteratura – della prima metà del XX secolo. Fu surrealista fino a quando il Surrealismo non venne sedotto dalle istanze comuniste, a detta di Artaud troppo deboli rispetto al modello di rivoluzione culturale e spirituale che il suo movimento avrebbe dovuto promuovere. Rivoluzione di cui trattano i saggi raccolti in Messaggi rivoluzionari a cura di Matteo Pinna per Ortica editrice (2019) – la prima edizione italiana pubblicata da Monteleone, a cura di Marcello Gallucci, risale al 1994 -, e che raccontano della fascinazione che Artaud ebbe per la cultura sotterranea del Messico del suo tempo, che nel 1936 gli fece lasciare l’Europa proprio nel tentativo di trovare in quelle terre l’energia necessaria per compiere la sua tanto agognata rivoluzione, che non è altro che il sovvertire il modo di pensare europeo, lo sterile dualismo occidentale tra uomo e natura a favore del monismo orientale (in questo caso precolombiano), tra ragione sterile e spirito vitale.
Ne viene fuori una raccolta di scritti provocatori, lucidamente folli, in cui Artaud cerca di spiegarci l’abisso in cui è sprofondato l’uomo europeo e dell’insufficienza della rivoluzione comunista, attenta solo all’aspetto materiale della vita e per questo di per sé già corrotta dal pensiero occidentale, per costruire l’uomo nuovo, la cui dimensione spirituale non può in alcun modo essere messa da parte: “Per me, non vi è rivoluzione senza rivoluzione della cultura, ovvero nel nostro modo universale, nel nostro modo, a noi tutti, gli uomini, di comprendere la vita e di porre il problema della vita. […] La cultura è mangiare, è anche sapere come si mangia; e per me, quando penso, mangio, divoro e assimilo pensieri. Ricevo dall’esterno le impressioni della natura e le espello verso l’esterno in pensieri. È lo stesso atto vitale, è una stessa funzione di vita che mi fa pensare e mangiare.” Secondo Artaud è compito della gioventù messicana incarnare questa rivoluzione totale attingendo dalla cultura “magica” e solare delle popolazioni che abitavano il Messico prima della colonizzazione europea (maya, toltechi, zapotechi…), una cultura che il francese riteneva ancora viva seppur minacciata dalla civilizzazione di stampo occidentale.
E cos’altro se non il teatro – un “teatro rivoluzionario” – avrebbe potuto rappresentare simbolicamente ma anche concretamente la principale arma della rivoluzione artaudiana? “La società moderna ha dimenticato le virtù terapeutiche del teatro, e noi la faremo ridere se le dicessimo che nelle epoche antiche il teatro è stato considerato come un mezzo eccezionale per ristabilire l’equilibrio perduto delle forze e che l’apparato teatrale antico implicava delle musiche e delle danze di guarigione”. Un’arte, quella del teatro, che coinvolge corpo e spirito contemporaneamente, e che “supera” la cultura libresca, decadente, su cui si basa tutta la civiltà occidentale riconciliando atto e fruizione, scena e platea in “un atto sacro che investe tanto colui che lo vede quanto colui che lo esegue”, poiché “l’idea psicologica fondamentale del teatro è questa: un gesto visto e che lo spirito riconosce in immagini ha lo stesso valore di un gesto che si compie”.
La rivoluzione di Artaud, ancora tremendamente attuale, non si compì mai se non in lui stesso, artista che incarnò fino in fondo la necessità di ripensare il concetto di Uomo e le sue esigenze spirituali ai nostri occhi, limitatamente europei, quasi spaventose.
Stefano Scrima
Antonin Artaud, Messaggi rivoluzionari, Ortica editrice 2019.