La strada dell’uomo morto è un romanzo di confine. Un confine nello spazio ma anche nel tempo. Nel tempo perché si colloca tra gli anni Settanta e gli Ottanta, quando si spengono gli ultimi echi del mondo contadino. Nello spazio perché è ambientato in una cascina ai margini di una città. Poco oltre, l’asfalto lascia il posto allo sterrato dal nome strano ma reale, La strada dell’uomo morto. Si chiama così per via di un cadavere che vi è stato trovato nell’800 e non è mai stato identificato. Su questa strada l’autore “scappava” insieme al fratello e a un compagno di classe del fratello che alcuni anni dopo verrà ucciso dal nonno, una ex guardia carceraria. Altri delitti o fatti criminali compaiono nel libro. Per esempio il pediatra dell’ospedale cittadino viene arrestato perché gestisce una raffineria di cocaina per conto di una banda di criminali marsigliesi conosciuti durante le vacanze estive. Sono tutti fatti realmente accaduti. L’autore sostiene di non avere fantasia, di non avere capacità di inventarsi nulla, da buon discendente di contadini e mugnai della Bassa. Un po’ come la nonna che non sapeva raccontargli le favole, ma lo affascinava con vere midnight stories: partigiani feriti sulle colline poco distanti e nascosti in un casupola vicino alla villa del comando nazista, fantasmi o streghe che volano nel cielo notturno della cascina, mulini ad acqua che bruciano. In quello stesso luogo, in quella stessa cascina, un matto si infila nottetempo dopo essere probabilmente scappato dal grande manicomio oltre il torrente. I passi silenziati dalla neve… In fondo le morti, il male, è figlio soprattutto della città, della droga, delle dinamiche familiari malate (un altro compagno di giochi si toglie la vita dopo avere tentato di uccidere il padre…), ma questo non comporta una esaltazione della campagna, una visione idilliaca: quel mondo che sta per scomparire è un mondo scabro, duro, una scuola di vita e di morte. Un mondo poetico, qualcosa tra Stand by me e L’albero degli zoccoli. Che merita questo canto un po’ funereo, pubblicato da Orazio Labbate nella collana da lui diretta, Interzona, presso l’editore Polidoro.
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La strada dell’uomo morto si chiamava proprio strada dell’uomo morto. C’era pure il cartello, e dicevano che si chiamava così perché in quella strada avevano trovato un cadavere, forse quello di un partigiano, che non erano mai riusciti a identificare. Forse il cadavere non era quello di un partigiano ma era stato trovato molto prima. Nessuno lo sapeva e nessuno sapeva chi fosse l’uomo ucciso. Con noi c’era anche Riccardo, dicevo. Potevano scambiarci per tre fratelli ma Riccardo, in realtà, era il compagno di classe di Paolo, dunque aveva un anno meno di me. Era meno biondo di lui, castano chiaro, e coi denti incisivi superiori un po’ sporgenti e che gli davano un’aria simpatica e divertita, come se sorridesse sempre. Di statura era alto più o meno come noi, più mingherlino di me, un po’ meno di mio fratello. Portava i capelli a caschetto, ma questo anche noi, perché era più facile tagliarli così, come usando una scodella, una tazza da latte di quelle grandi. I denti un po’ sporgenti lo facevano somigliare a sua madre che però non era quella naturale. Era stato adottato. La madre era un’insegnante e il padre un impiegato di banca, entrambi piuttosto miti, lei più allegra e grassottella, lui segaligno, sul cupo e taciturno. A conferire l’aspetto definitivo dei viaggiatori sulla strada dell’uomo morto, il tocco finale, era il bastone. Non mancavamo di farcene uno ciascuno togliendo le foglie dal ramo di una pianta del cortile con un coltellino che rubavamo in cucina. Una volta, lungo quella strada, ma non molto oltre la soglia dove comincia lo sterrato dell’uomo morto, abbiamo fatto il bagno in un canale di irrigazione, in un fosso. Il nonno ci ripeteva sempre questa frase che aveva a che fare con i fossi: quand’ero giovane saltavo i fossi per il lungo. Un modo di dire che mi è rimasto in mente come altri. Gratis non abbaiano neanche i cani. E’ così freddo che abbaia la volpe, quando faceva davvero freddo. E ci sono gli asini con la coda gelata, per rispondere invece a qualcuno che sosteneva fosse freddo quando non lo era. Di solito pronunciava la frase in dialetto, ma si capiva lo stesso.
L’acqua del canale dove abbiamo fatto il bagno sulla strada dell’uomo morto me la ricordo limpidissima, ma doveva essere piena di fertilizzante assorbito passando tra i campi. Aveva un color verde trasparente. Il canale si celava alla vista grazie a una sponda erbosa molto alta, quasi un terrapieno che avevamo scalato più per sfogo fisico che per curiosità trovando infine un posto dove rinfrescarci, dove fare il bagno, dove buttarci dentro, senza farci vedere da nessuno. Ma quella era stata una volta che faceva molto caldo e non eravamo in fuga, non c’era il cane, lo zaino con le provviste di pane secco e avevamo intenzione di tornare alla cascina, alla casa bianca prima che i nonni si allarmassero. Le fughe non ammettevano invece nessuna distrazione. Non si poteva pretendere di andare lontano perdendo tempo a sguazzare nell’acqua di irrigazione. Senza nulla togliere al piacere che ne abbiamo tratto e che ci siamo ben guardati dal riferire in casa, per paura che ci sgridassero e ci impedissero di farlo un’altra volta chissà come.
I campi ai lati della strada dell’uomo morto si estendevano per pochi chilometri prima di incontrare una densità abitativa tale da togliere ogni aspetto di campagna aperta. Ma a noi, poiché c’erano alberi, sponde e altri ostacoli naturali allo spaziare della vista a perdita d’occhio, sembrava che ci fossero campi per giorni e giorni di cammino. Verso sera, la mamma e la sua amica, la madre di Riccardo, prendevano la macchina e ci venivano a cercare. Prima ci cercavano dai vicini poi, quando vedevano che non eravamo a giocare da loro, immaginavano che eravamo in fuga.
Questo le spaventava perché sapevano che ci spingevamo lontano, che potevamo raggiungere la fine della strada dell’uomo morto, dove lo sterrato circondato dal verde lasciava improvvisamente il posto alla Milano-Salice, la strada provinciale che portava verso la metropoli o le colline, a seconda della direzione, e dove le macchine andavano veloce. Pensavano ai pericoli, ai trattori che passavano lenti ma ciechi, alle macchine che potevano investirci. Alla sera, dopo averci trovato e sgridato, quando ormai l’orizzonte si scuriva, tornavamo a casa e venivamo inghiottiti dal sonno, che arrivava ancora più presto del solito per avere camminato tanto. Caricavano in macchina noi e il cane e io guardavo se guardava lo specchietto, se capiva che quella che vedeva riflessa era la sua immagine, se sapeva decifrare l’immagine di un cane. Ma più spesso guardava in faccia a noi, sbuffandoci addosso con la bocca aperta e la lingua fuori, porosa, rosa e dentellata, o guardava fuori dal finestrino abbassato. Al fatto che Riccardo fosse adottato attribuivamo una valenza misteriosa, un qualcosa di drammatico che non potevamo decifrare e valutare bene, ma chi ci sembrava grave, importante. Dobbiamo averne parlato anche con lui perché una volta sua madre ci ha sgridati e ci ha detto che dovevamo stare zitti, che non dovevamo parlare di questa cosa con Riccardo, ma noi negavamo di averne parlato con lui, anche se non era vero.
«Che storia avete raccontato a Riccardo?», ci ha chiesto con tono severo ma non arrabbiato sua madre. «La storia di Bianca neve e i sette nani», abbiamo risposto tirando fuori la prima cosa che ci veniva in mente per sottrarci alla sgridata e lei ha lasciato cadere il discorso.