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Antonio Pennacchi. La strada del mare

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Antonio Pennacchi, autore per Mondadori dei romanzi Il fasciocomunista, Mammut e Canale Mussolini (parte prima, Premio Strega 2009, a cui è seguita parte seconda nel 2015) torna in questi giorni in libreria, sempre per Mondadori, con La strada del mare in cui narra gli anni Cinquanta dell’Agro Pontino andando ad aggiungere un altro capitolo alla saga della famiglia Peruzzi già protagonista di Canale Mussolinidal nome del principale canale di bonifica dell’Agro Pontino fra i territori di Latina e Cisterna di Latina. La famiglia Peruzzi, raccontata in prima persona da un componente della famiglia stessa, come nello stile della tradizione orale contadina dove le storie venivano narrate radunandosi insieme alla fine del giorno, appare in tutta la sua autentica bellezza. Si tratta della storia di piccoli uomini e piccole donne il cui mondo va a inserirsi e fondersi con le vicende della storia d’Italia del dopoguerra. In questo, nell’unire il particolare all’universale, Pennacchi è maestro, rendendo partecipe il lettore di avvenimenti appartenenti a una storia non troppo lontana, quella del dopoguerra, che tutti ci riguarda. Così Otello, Manrico, Accio e tutte le figlie e i figli di Pace Peruzzi e “zio Benassi”, crescendo negli anni del boom economico, vedono Littoria diventare Latina e spingersi fino al mare grazie a quella “Strada del mare” che sarà percorsa, oltre che dagli abitanti delle paludi pontine, anche dai grandi nomi della storia italiana e non solo. Con un linguaggio colorito che spesso ricorre al dialetto venetopontino dei coloni, Pennacchi ci mostra e ci trasporta grazie ai suoi veraci personaggi, al centro di uno straordinario spaccato d’Italia, consegnandoci con La strada del mare un altro grande romanzo corale, tassello imprescindibile dell’epica italiana del Novecento in cui perfettamente coesistono la Storia, il divertimento e i turbamenti dell’animo umano.

Silvia Castellani

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Di seguito un estratto in esclusiva da La strada del mare da ieri (29 settembre) in libreria con Mondadori.

Mio zio Benassi comunque, quel giorno della prima comunione e cresima di Violetta, aveva noleggiato una macchina di piazza con autista – un Fiat 1100B Musone, versione taxi – per andare fin là, perché non c’erano biciclette a sufficienza e la corriera fermava a Borgo Vodice e basta, non arrivava al podere sulla Lungosisto, dove Emma e il Barca avevano preparato per tutti i parenti il pranzo e la festa della prima comunione di Violetta.

Lei era tanto contenta pei regali, e dopo mangiato via a giocare coi fratelli e cugini, e di qua e di là a far vedere a Accio le mille meraviglie di questo suo paradiso, fin sull’argine del Sisto a rimirare il fiume – «Stà atento, parò, non starti a spòrgere ch’at ròdoli e anneghi» – cercando di convincerlo: «Guarda qui quanto è bello, qua si sta bene, vieni pure tu, di’ a mamma che ti mandi».

«Sì sì, glielo dico subito».

«No adesso. A casa, glielo devi dire».

«Va bene», quel fesso di Accio. Ma quando è stata l’ora di partire – dopo i saluti baci abbracci ai suoi fratelli che ad uno ad uno rimontavano dentro la macchina a noleggio, e poi anche sua madre e padre veri – Violetta s’è messa a piangere.

Il suo non era però un pianto come quelli di Accio, a strilli che spaccavano i vetri. No, lei piangeva piano piano senza farsi sentire; se le mangiava le sue lagrime, le rimandava tutte indietro. Tu capivi che piangeva solo dagli occhietti semichiusi, dalle labbra piegate in giù e dal dito che si ciucciava nella bocca.

Accio è sceso di corsa come una serpe dalla macchina, e l’abbracciava e le chiedeva: «Ma non hai detto che stavi bene qua? È tutto quanto bello, non sei contenta?»

«Sì, sono contenta, sono contenta» e piangeva Violetta, piangeva.

«Va’ indentro e no star far la stupida» le ha detto Emma.

Zia Pace s’è ripresa Accio e siamo partiti. Noi a dir la verità non ci eravamo quasi accorti di niente e in macchina, nei doppi sedili dietro – era a sei posti il 1100 Musone taxi, ma noi ci stavamo in dieci – giocavamo e scherzavamo.

Zio Benassi invece muto e scuro.

Solo sulla Mediana – che allora non era larga e con i jersey, strada statale Pontina di oggi; ma provinciale stretta, anche se asfaltata già dal fascio, tutta ancora però rattoppata dalla guerra – zia Pace ha provato a sondare l’aria che tirava: «Be’, le ha fatto una gran bella festa Emma, no? Tutta quella gente e quel mangiare, non sei contento?»

«No che non so’ contento» è esploso: «I patti erano chiari, Pace. Te l’ho detto un sacco de volte: nessuna differenza tra i figli dovevamo fà».

«E che differenze ho fatto?» ha provato a rispondere: «Quelli stanno meglio di noi, che campiamo con un solo stipendio. Lei, là, sta meglio di tutti gli altri, non le manca niente e le vogliono un bene da pazzi».

«Nooo. Lei sta bene a casa sua coi suoi fratelli, altro che stipendio o non stipendio. Poco o tanto che sia, per tutti uguale deve essere, hai capito? Io quella figlia mia in mezzo alle vacche col lume a petrolio, e che me chiama papà-Benassi, non la voglio più vedé. Deve ritornà a casa coi suoi fratelli».

«Va be’» ha detto piano piano mia zia, che da una parte si vergognava dell’autista e dall’altra però s’era pure intimorita dai toni, dall’umore e dallo sguardo cupo di zio Benassi. Lo stesso sguardo cupo – se lei ricorda – di quella volta a Napoli da giovani, quando zia Pace era andata a fargli una scenata di gelosia sul lavoro e lui, tornato a casa, era diventato una bestia e s’era trasformato fino al punto di mollarle l’unico schiaffo della loro vita assieme. «Ah, no. Fino a quel punto non ce lo porto più» deve avere pensato zia Pace, e gli ha detto: «Ne riparliamo».

«C’è poco da parlà».

«Ma almeno a finire l’anno?»

«Vabbe’» e quando a giugno del 1955 Violetta ha terminato a Borgo Vodice la prima elementare, sono andati in bicicletta a riprendersela ed è tornata a casa.

Emma era disperata. Era davvero come se le stessero strappando una figlia. Anzi, quella oramai era proprio sua figlia, secondo lei – povera bestia – anche se faceva la nonscialan e sorrideva, mentre zia Pace tentava di consolarla: «Vedrai che ti verrà a trovare».

«Certo che mi verrà a trovare. Ti aspetto, sai?»

«Verrà ogni anno, ogni estate da te».

«Quando vuole, quando vuole…»

Ma prima di mollargliela del tutto l’ha riportata dentro casa con una scusa – «Abbiamo dimenticato una cosa, vieni, vieni» – s’è chinata alta e grossa su di lei viso contro viso, e però il viso di Emma era tutto scuro, nero nero cattivo, e gli occhi stretti stretti e le ha sibilato: «Guarda che se te ne vai adesso, qui non metterai più piede. Me ne vado a prendere un altro a Sabaudia all’orfanotrofio, e te non ti voglio vedere mai più. Hai capito?»

Violetta era terrorizzata. Bene o male s’era affezionata anche lei a mamma-Emma e papà-Barca, e quando sono tornate fuori, pronta oramai per salire sulla stecca della bicicletta e partire, ha implorato la sua mamma vera: «No mamma-Pace, lasciami qua, ti prego».

«Via, via!» l’ha presa di forza zio Benassi, caricata sulla stecca e cominciato a pedalare: «Torniamo a casa», mentre lei piangeva.

Piangeva pure Emma però. E piangeva piangeva – anche se da solo in stalla, per non farsi vedere – mio cugino Amilcare detto il Barca. È difficile per tutti la vita a questo mondo, c’è poco da fare.

30 settembre 2020

© 2020 Mondadori

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