Ci sono strade grigie, anonime e invisibili, che si percorrono quasi senza rendersene conto e non portano da nessuna parte. E ci sono percorsi lenti, faticosi, insoliti e pieni di senso che invece ti cambiano per sempre. Ha questa fisionomia il cammino che Antonio Polito ha deciso di raccontare nel suo ultimo libro. Un cammino che ha fatto in prima persona, corpo e anima, passo dopo passo, coi piedi e coi polpacci, con le spalle ma anche con gli occhi e con le orecchie, col cuore e con la mente.
Tutto inizia dalla piazza centrale di Norcia. E’ una mattina di giugno: sono le sette e fa freddo. Una giacca a vento nuova di zecca e uno zaino tecnico sulle spalle. Si parte con tre amici per il Cammino di San Benedetto, dal paese natale del santo al luogo dov’è sepolto, l’abbazia di Montecassino. Un pellegrinaggio laico sulle orme di coloro che fondarono l’Europa moderna. Ma soprattutto un’esigenza spirituale perché “camminare è vita” e dopo il lungo confinamento imposto dal lockdown è assolutamente necessario accecarsi di luce.
Camminando si accendono i sensi, si mette in moto il cervello. Ma è importante non smarrirsi e chiedersi sempre a ogni passo qual è la direzione. Del resto, i camminatori si dividono in due grandi categorie: “quelli che rischiano e scommettono sulla buona sorte e quelli che umilmente hanno il coraggio di tornare sui propri passi”. E Polito e i suoi compagni di viaggio scelgono senza ombra di dubbio di appartenere alla seconda schiera. Insomma, in poche parole serve una meta. E servono delle regole: Le regole del cammino (edito da Marsilio per la collana “I Nodi”, 2020). Un manuale di istruzioni che è anche un vademecum per ricostruire l’Italia che sarà.
E se ripartissimo proprio da quell’Italia minore fatta di borghi e piccoli paesi di appena qualche centinaio di anime? L’Italia umile e semplice delle colline, “il centro del Centro” dove tutto è nato, dalla borghesia ai mercanti, dai Comuni all’autogoverno? Non male come idea. Decisamente ambiziosa. Per adesso ci si accontenta di iniziare a camminare tra salite e discese, in buona compagnia: tre amici e un prete. In tutto tre uomini e una donna: una collega sensibile e piena di energia, abituata da brava giornalista a interessarsi dei fatti degli altri. In mezzo c’è pure un professore che ha fatto il Cammino di Santiago dal lato portoghese.
Si riparte dal nostro passato, dalla nostra tradizione, dalle nostre origini e questo ci può aiutare a decidere dove vogliamo andare. In un Paese sregolato e individualista servono più che mai regole precise. E chi può incarnarne lo spirito più profondo se non San Benedetto, vissuto nel VI secolo d. C, all’epoca in cui per l’Italia scorrazzavano i barbari. Un santo intellettuale e “provinciale” (mandato a Roma dalla famiglia benestante, fuggì presto dalla vita dissoluta della grande città). Un santo europeo, colto, comunitario e costruttore: costruì a Montecassino il primo cernobio dell’ordine benedettino. San Benedetto simbolo dunque del cammino che deve intraprendere l’Italia, visto che abbiamo di fronte una nuova salita così ripida come non ne avevamo mai viste prima, con quell’ “Ora et labora” che millecinquecento anni dopo ci dice ancora qualcosa di utile.
Pagina dopo pagina, Polito e i suoi compagni attraversano le colline del centro Italia, arrivano a Vicovaro, di fronte alle grotte scavate dal tempo che ospitarono uno degli eremi in cui per un periodo visse e pregò San Benedetto e di fronte alle quali non possono non provare un profondo senso di colpa per lo sperpero e l’abbondanza a cui siamo ogni giorno abituati. E’qui che li assale il desiderio di tornare alla frugalità, all’essenziale, tra chiacchiere sulla vita e cene con sconosciuti e viandanti, senza sentire l’obbligo di doversi rappresentare. Un ritorno al viaggio inteso come scoperta e curiosità verso gli altri, laddove tutto ha un senso diverso e in un rapporto simbiotico e intimo con la natura perfino rivedere le lucciole suscita una certa commozione e diventa metafora dell’inizio di una nuova fase indispensabile per colmare l’ angosciante “vuoto di senso” che ci pervade.
Un libro che è anche un excursus sui passaggi più significativi ed epocali della storia d’Europa (dalla caduta dell’ancien régime alle grandi rivoluzioni, all’affermazione delle idee liberali e democratiche) e di un’Italia passata da leader mondiale a “Paese sottosviluppato d’Europa”. E se il futuro fosse proprio qui, tra le mura storiche di questi paesi sperduti? La sfida sarebbe possibile accoglierla solo con quel “salto tecnologico” che farebbe compiere l’agognato miracolo. Chi vivrebbe davvero qui, in questi luoghi senza sentirsi tagliato fuori dal resto del mondo? E così si torna a parlare del 5G, dell’essere sempre connessi, ma non solo. Per poter davvero vivere in questi luoghi sperduti senza essere di fatto isolati sarebbero indispensabili anche investimenti sulla scuola e sulla sanità. Se la Terza Rivoluzione industriale permetterà di lavorare e produrre dovunque, anche da un piccolissimo borgo sui monti Lucretili, avremo vinto la scommessa: non ci sarà più bisogno delle metropoli per sentirsi vivi. E sarebbe anche l’avvio di una grande operazione politica che riscriverebbe l’idea stessa di Patria. Tanta roba, insomma. Non male da tirar fuori in un pellegrinaggio laico in cui non manca una riflessione su Dio e sulla religione, ispirata proprio dal contatto ravvicinato con la maestà della natura.
Ma questo è anche un libro dalla parte delle donne, perché “sono ancora troppi a non aver capito che l’unica rivoluzione davvero riuscita nel secolo scorso è stata quella femminile”. Non a caso certi sistemi politici al femminile (vedi in Europa) hanno di recente riscontrato molto successo.
Un viaggio che serve all’anima per alleggerirsi dagli inutili pesi che ogni giorno ci portiamo addosso come per esempio la rabbia o l’insoddisfazione. Senza la presunzione di voler rifare proprio tutto quello che si è fatto, che “non è esattamente l’atteggiamento mentale più corretto”. Ma si sa, l’umiltà è ultimamente bandita dalla politica, che ormai predilige un certo machismo. E se il premier Giuseppe Conte si lascia andare con una certa sfrontatezza e senza il minimo imbarazzo a un caustico “Dovessi ricominciare, rifarei tutto”, per Antonio Polito nel novero delle cose da non rifare ci sono sicuramente quel titolo di Repubblica del 1993 “Ora tocca a Belzebù”, che annunciava l’apertura di un’indagine per concorso in associazione mafiosa contro Giulio Andreotti o un paio di articoli contro Filippo Penati, l’ex presidente della provincia di Milano indagato con accuse di corruzione poi rivelatesi infondate, inchiesta che lo condusse alla morte. O ancora dichiararsi entusiasticamente progressista, votare Virginia Raggi sindaco di Roma nella convinzione sbagliata che non si potesse fare peggio rispetto alle due precedenti esperienze di destra e di sinistra, rifare il senatore (scelta che lo costrinse ad abbandonare per due anni la giovane redazione del Riformista, giornale da lui fondato, che sicuramente aveva più bisogno della sua presenza di quanto non ne avesse il Parlamento).
Pagina dopo pagina, l’autore si fa inconsapevole motivational coach, in un percorso utile a capire chi siamo stati e dove vogliamo andare, ma soprattutto come possiamo uscire dalla crisi e riaccendere i riflettori sul futuro, quella luce in fondo al tunnel. E leggendo fino alla fine, la sensazione che si prova – in un periodo in cui abbiamo esercitato a dismisura paura, ansie e incertezza – è quella di un sollievo che deriva dall’aver tracciato un percorso, uno scopo, una meta da raggiungere per ricominciare una nuova vita. E non è certo un’emozione da poco.
Elena Orlando