Scrittori stroncati da scrittori (se medesimi). Una nuova rubrica Satisfiction.
Alcuni tra i maggiori scrittori italiani hanno deciso di stroncarsi. Non la carriera, per quello c’è sempre tempo, ma il loro ultimo romanzo. Con feroce ironia hanno deciso di guardarsi allo specchio e riflettere sulla propria opera.
Lontano dalle passerelle di carta, dai confessionali televisivi e dai tinelli catodici dei nostri pomeriggi postmoderni (dove tutto più che vero sembra ormai diventato “Verissimo”) l’onestà intellettuale è l’ultima speranza che rimane alla letteratura per diventare non eco, ma Voce.
“Scrittori stroncati da scrittori”, che nel titolo ricorda la collana Einaudi “scrittori tradotti da scrittori”, vuole evidenziare come gli scrittori contemporanei abbiano ormai i dovere non solo di riflettere, ma anche di riflettersi.
E’ proprio dalla mancanza di ironia che il mondo editoriale appare molto spesso asfittico e irraggiungibile per quei tanti lettori che sembrano essere catturati dagli editori soltanto da logiche commerciali sempre più scontate, per nondire al ribasso. “Scrittori stroncati da scrittori” (se medesimi) vuole dare un nuovo impulso alla narrativa italiana: attraverso l’autoriflessione e l’autocritica trovare nuovi spunti per un dialogo non solo letterario ma civile.
Ad inaugurare la rubrica Scrittori stroncati da scrittori (se medesimi) Antonio Scurati che stronca il suo ultimo La seconda mezzanotte (Bompiani). Seguiranno tra gli altri Joe Lansdale ed Edoardo Nesi.
“Scrittori stroncati da scrittori (se medesimi)” viene pubblicata in contemporanea anche sul portale di Rolling Stone Italia: una sinergia che si inaugura proprio con la più spericolata e rock delle rubriche.
Gian Paolo Serino
Antonio Scurati, autore de “La seconda mezzanotte”, stronca “La seconda mezzanotte”.
“E’ magnifico, ma questa non è guerra!”, si racconta che abbia protestato il maresciallo di Francia Pierre Bosquet dopo aver assistito dall’alto di un colle alla sublime, futile e suicida carica di cavalleria della Brigata Leggera contro l’artiglieria da campo schierata dai russi ad attenderla nella piana di Balaklava il 25 ottobre del 1854. “E’ orribile, ma questa è letteratura!”, sembra voler proclamare al mondo (ma è dubbio che qualcuno lo stia ad ascoltare) Antonio Scurati con La seconda mezzanotte, il suo ultimo pretenzioso e programmaticamente ributtante romanzo (in ciò indubbiamente riuscito).
Tutto in questa parabola narrativa sul troppo a lungo annunciato “tramonto dell’Occidente” punta al brutto. La storia è ambientata in una Venezia del 2092, già sommersa dalla catastrofe alluvionale e già rifondata da una multinazionale cinese che l’ha trasformata in un parco a tema violento e perverso consacrato ai vizi e ai lussi dei nuovi ricchi orientali. Ma più che la storia, a contare è qui l’umore di fondo: umore nero, biliare e atrabiliare. Nessuna croce manca nel giardino delle delizie peccaminose di Nova Venezia: azzardi, droghe, orge, stupri, sevizie, apocalissi climatiche e perfino la riedizione degli antichi combattimenti tra gladiatori in Piazza San Marco! Alla fine, la bruttezza restituisce lo sguardo al suo zelante ammiratore.
Si vuole futuribile lo Scurati de La seconda Mezzanotte, si crede alla ricerca di una via contemporanea di accesso alla tarda modernità e, invece, cammin facendo, si scopre stanco epigono di più d’una tra le più trite ideologie letterarie del sepolto Novecento. “Sii sozzo, sarai vero”, predicava Cioran, e lui lo prende alla lettera. “Non c’è più bellezza o conforto se non nello sguardo che fissa l’orrore, gli tiene testa”, sentenziava Adorno e Scurati, non avendo orrori da testimoniare, se li inventa. E allora via, per 300 pagine e passa, a mimare scompostamente l’eredità del travaglio hegeliano che prescriveva di tener fermo alla contraddizione, di non distogliere lo sguardo dall’abisso, di coltivare la lacerazione, il disagio, la dissonanza, la sofferenza introiettata e custodita per sottrarsi alle oppressioni di un presente in nome di un avvenire di redenzione.
Ma si tratta alla fine di un gesticolare a vuoto, dello squittio di un figlio del secolo sazio e opulento che si pretende povero e affamato, del manifesto confuso di una generazione di traumatizzati senza trauma inesausti nel reclamare sciaguratamente la mazzata che la Storia gli ha negato. Ma di cosa avrà mai fame un romanzo come questo, e tanti altri simili a lui, tutti scritti da autori con la pancia piena? Si direbbe che abbia fame di “realtà”. Purtroppo, però, la va a cercare in una iperfinzione che per darci prova della sua autenticità sprofonda sempre più nei toni crudi della vita, nel sangue, nello sperma, rimesta nel torbido, nell’abietto, in un’orrida rappresentazione del mondo che per farci credere di essere il mondo ce ne getta in faccia il cadavere, che per provarci di essere viva, di essere “vita”, ci esibisce continuamente certificati di morte, sostituendo l’osceno al tragico. La peggior televisione, insomma.
Per un verso, infatti, lo sguaiato desiderio di realtà di questi anni è l’altra faccia della smaterializzazione della “vita reale”, del suo svanire in uno spettacolo percepito come spettrale. Per altro verso, la “passione per la realtà” è passione fasulla, passione di pancia o di testa, mai di cuore, passione che tenta lo stratagemma definitivo per evitare un confronto con il Reale, cioè con quel nucleo sempre traumatico ed eccessivo che squarcia il velo dell’immaginario lasciandoci tramortiti perché incapaci di integrarlo nella nostra realtà. Il risultato è un realismo psicotico, sempre in erezione e sempre impotente, sempre goffamente alla ricerca della “cosa terrificante”. Si dia pace Scurati: la “cosa terrificante” non sarà mai accertata perché, come gli dei del mito, quando si manifesta all’uomo è per annientarlo. Si dia pace e, soprattutto, ne dia a noi lettori.
A tutto questo non si può che opporre un sonoro “basta!” (lo sta già facendo l’igiene commerciale del mercato). Basta con questi libri che pretendono di non lasciare indifferenti perché smuoverebbero in profondità qualche cosa che di norma resterebbe quieto (o quietato) sotto un’acqua che rischierebbe per questo di farsi torbida. Basta con questa favola dei libri che aprirebbero una piaga infetta, le cui conseguenze non possono essere piacevoli, ma appunto per questa ragione varrebbero la pena di esser letti. Basta con personaggi improbabili che parlano un linguaggio incomprensibile di lotta e di morte senza tempo: nelle loro parole riecheggia e nel bagliore dei loro occhi riverbera una luce oramai scomparsa dalla superficie del pianeta civilizzato. Basta, soprattutto, con la smodata pretesa di riuscire con un semplice romanzo a provocare terremoti terribili e approntare rifondazioni culturali. Scrivete qualcosa di bello, se ancora vi riesce, oppure – con licenza parlando – toglietevi dai coglioni.
E poi, se la vogliamo dir tutta, non si può essere anti-moderni, anti-umanisti, anti-occidentali e aver anche la pretesa di essere anti-fascisti (si vedano le dichiarazioni dell’autore in proposito). Guerra tra le razze, geopolitica della violenza, ritorno del servaggio, odio-anticinese, eugenetica e politiche demografiche. Questi i veleni che maneggia il romanzo. E di questi s’intossica.
“Alla fine scoprimmo che non esistono antidoti, solo veleni più lenti”, vi si legge. E’ l’unica riga condivisibile de La seconda mezzanotte. Perché qui il libro sta parlando di sé.
Antonio Scurati