Alcuni libri sono troppo. Troppe trame, troppi stili. Alcuni hanno anche troppi personaggi, ma questo non è il caso di Gli ultimi americani, di Arianna Farinelli, edito da Mondadori.
Ogni scrittore è chiamato a fare delle scelte, spesso dolorose e alcuni non ce la fanno. Si pensa che tutto sia necessario anche se non è vero.
Questa storia narra di uno scrittore colombiano che vive a New York da rifugiato, insieme a Lola, la donna con cui è cresciuto e con cui ha un legame strettissimo al punto che sembrano spesso una persona sola. Scrivono insieme, sono cresciuti insieme.
Sono due persone lesionate, Lola e lo scrittore, dal destino triste e rassegnato come quello degli uccelli Cuvivies, che ogni anno viaggiano dall’Alaska alle Ande, volano per migliaia di chilometri e poi si schiantano ad Achipungo, sulle acque ghiacciate dei laghi Ozogoche. Esseri umani che si portano dentro paesaggi deserti, città sotto assedio che sentono come aperte le ferite della tragedia Colombiana e quelle persino più dolorose derivate dalla violenza anaffettiva e fisica del padre dello scrittore che avrà su queste due vite un’incidenza enorme.
E poi è la storia di Alma, la donna che dello scrittore divenne amante e che condivise con Lola un sentimento ancor più forte, la sorellanza.
Queste tre persone s’intrecciano come trame di corda e si confondono nel ricordo, nel vissuto, fino a sembrare più che una persona sola, pezzi diversi, parti distinte, di un medesimo corpo.
Come se Lola, Alma e lo scrittore fossero le mani, i polmoni, il cuore di un organismo che potremmo definire Ultimi americani.
Al suo meglio, nei capitoli iniziali e tutte le volte che i personaggi sono a New York, quando l’autrice descrive il fragile equilibrio di questo triangolo amoroso, Arianna Farinelli scrive con l’esattezza e la laconicità poetica di certi sudamericani. Penso a Ricardo Piglia, a Cortazar, persino.
Nelle pagine di Alma e dello scrittore chiusi nel suo studio, o nei cinema, oppure quando ballano nella strada dove aveva vissuto Leonhard Cohen, il racconto si eleva.
C’è però troppa legna. Chiunque legga abbastanza, sa che le belle storie sono meno consuete di quanto si creda e questa lo è, una bella storia, lo sarebbe. Purtroppo vengono toccati troppi temi, troppe vicende, alcune solo sfiorate. In sole duecento pagine è difficile trattare adeguatamente d’amore, di politica, di ornitologia, di solitudine, di storia della Colombia, di abusi e del sistema carcerario americano. È come se una fiamma abbagliante, venisse soffocata da un eccesso di combustibile.
Inoltre Arianna Farinelli alterna davvero molti stili, si passa dal racconto in prima persona, all’intervista, al monologo, alle lettere.
Questo, se da un lato crea movimento, alla lunga genera straniamento. Leggendo ci si perde, anche perché la narrazione non segue una linea temporale precisa. Al lettore vengono consegnati pezzi di una storia in maniera sparpagliata. A lui toccherà ricostruirla, mettere tutte le informazioni al posto giusto, ma è faticoso, spesso e se questo racconto non viene letto d’un fiato si rischia di dover tornare indietro o di non capire.
Per troppi versi è un peccato, perché ci sono pagine davvero molto belle, racconti – tra i tanti racconti – che non vorrò dimenticare.
Pierangelo Consoli
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Arianna Farinelli, Gli ultimi americani, Mondadori, 2022, Pp.228, euro 18,50