Chiudo il libro e mi concedo qualche minuto per respirare. L’abisso è ancora lì, nella mia testa, si è cibato del mio ossigeno. Nonostante la luce abbagliante che pare invadere ogni cosa, questa manciata di vite disgraziate ha lasciato un solco nella mia esperienza di lettore e so già che ci resterà per parecchio tempo.
Non conoscevo le opere precedenti di Barretta, non avevo letto nulla di suo, ricordo solo un paio di Meridiano Zero negli scaffali di una libreria a Bologna, stupidamente mi sono approcciato alla lettura di questo centinaio di pagine aspettandomi il classico romanzo di formazione LGBTQ con un travaglio doloroso, un percorso di crescita e una catarsi finale a riappacificare gli animi. Non avevo immaginato quanto sarebbe stato lucido, spietato e affascinante precipitare nel baratro di questo autore.
C’è un’estate, sono gli anni ottanta, in una Bologna surriscaldata dall’imminente arrivo delle vacanze, la voce è quella di Davide, un tredicenne come tanti, alla scoperta delle sue prime folgorazioni, in un corpo che sembra non volerne sapere di crescere e che di colpo invece si ritrova i primi peli sul pube, i primi risvegli nel sudore, lo stomaco in subbuglio alla vista dei corpi nudi degli amici del padre in riva al fiume. Davide che adora Cindy Lauper, che ascolta nel suo walkman le cassette registrate dalla radio, che piange guardando Candy Candy e Mimì Ayuhara e vomita sulle coltellate di Profondo rosso. È l’estate delle domande invadenti, della rabbia e dell’invidia nei confronti di quel fratellino, Mauro, adorabile secchione che mamma e Giuseppina non smettono di lodare. È l’estate dei Postalmarket sfogliati di nascosto alla ricerca di quei corpi in mutande così diversi da quello di Osvaldo, suo padre, la cui stazza massiccia lo fa sembrare nei sogni bagnati come un Jeeg Robot ricoperto di peli pronto a sfidarlo, proteggerlo, amarlo. È l’estate dell’amore, appunto, un amore viscerale, devoto, cieco nell’opprimente impellenza di appartenere, mente e corpo, a quel padre obbligato a restare confinato in un appartamento nuovo, nella periferia di Bologna, nel periodo più caldo dell’anno, assieme al fratello minore, mentre sua madre e quell’ex-suora invadente saranno altrove, lontano, dimenticate nella caligine. Ed ecco che il romanzo improvvisamente sferza. Quello che prima ci appariva come il resoconto di una formazione adolescenziale vista dagli occhi del protagonista, ora muta in qualcos’altro. L’ossessione dilata la percezione del tempo, dei sentimenti, delle priorità e quel materasso al centro della sala si fa metafora di un limbo in cui ogni limite percettivo verrà abbattuto in balìa di pulsioni frutto di una famiglia “sbagliata” fin dal suo concepimento iniziale. Sono scene forti quelle che ci vengono descritte attraverso gli occhi di un Davide maniacalmente deviato da quell’adorazione totale nei confronti di un padre duro ma anche dispensatore di inaspettati slanci di gentilezza, una figura patriarcale totalizzante che non si fa scrupolo di nascondere la sua preferenza per quel fratellino così brillante, fragile, ingenuo nella sua innocente inconsapevolezza. E la penna scivola negli anfratti di questo rapporto che non si preoccupa di abbattere ogni limite né tabu, attraverso una narrazione liquida che minimizza i dialoghi, compatta i paragrafi e forte è la sensazione di un continuo scivolamento, appunto, verso il basso, la parte più sconosciuta e celata delle nostre percezioni, attraverso gli occhi di un tredicenne che non ha priorità se non quella di soddisfare e rendere orgogliosa l’unica persona che ha saputo accettarlo per quello che realmente è.
L’autore compie un lavoro magistrale nel sospendere ogni forma di giudizio o condanna morale: quello che leggiamo è quello che accade, è accaduto e continuerà ad accadere. L’abisso è parte e materia di ognuno dei personaggi qui rappresentati. L’abisso è crescere all’ombra dell’invidia, l’abisso è una pulsione che si ciba di corpi inconsapevoli ma l’abisso è anche una madre in fuga, incapace di saper accettare il proprio figlio e che per questo si affida alla distanza o all’aiuto di una ex-suora convinta che una punizione fisica sia l’unica soluzione per contenere la voragine. L’abisso forse è la scomodità di saper accettare tutto questo. Il senso di colpa per non aver saputo ribellarsi, per non aver preso le difese di un fratello più fragile o per non aver ascoltato la propria voce interiore fin dall’inizio.
A ogni modo, come dice l’autore stesso, c’è più purezza in questo abisso che nella falsità di certe sovrastrutture sociali e la forza di una buona letteratura personalmente penso stia tutta qui: nella sua capacità di farci male, sollevare quesiti, spingerci a riflettere. In questo, l’opera di Ariase Barretta è faro in una notte di oscure ipocrisie.
Stefano Bonazzi