Apro la porta che dà sulla strada e guardo. Luci calde e soffuse mettono in scena, al centro della stanza, un letto antico con lenzuola di lino bianco. Sopra il letto decine di uomini e donne di plastilina si amano come possono, attraverso il sesso, una carezza o l’ascolto attento, combinando genere e numero in qualsiasi modo. Sembrano anime che danno lotta alla paura di morire con tutto l’eros di cui sono capaci.
Era novembre del 2018 quando entravo per la prima volta nello studio dell’artista Tatiana Brodatch. Lo studio, in una via traversa di Corso Sempione a Milano, era diventato spazio espositivo per la sua mostra Love is a verb – che descrivo qui, all’inizio – e in quel contesto l’ho intervistata la prima volta per Panorama.
Tatiana Brodatch, nata nel 1977 a Mosca, dove si laurea come architetto, lavorerà a Milano nei primi anni della sua carriera innamorandosi di questa città, alla quale tornerà per studiare nell’Accademia di Belle Arti di Brera, e dove rimarrà a vivere.
Entro ora nel suo studio e trovo il calore e il disordine di uno spazio creativo, sensuale e operoso. Diversi lavori sparsi sui tavoli, fotografie e disegni appesi al muro. Sembra che lei non possa tenere ferme le mani. Vive, si guarda vivere e quando non scolpisce, disegna quello che vede e sente, ritrattando con certa ironia scene della vita quotidiana, paure, divertimenti e sofferenze, dando vita a disegni con i quali più volte ho illustrato i miei articoli per i giornali argentini.
Voglio conoscere qualcosa in più di lei prima di parlare d’arte, la immagino bambina in Russia, e le faccio qualche domanda.
Mercedes Viola
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Di seguito l’intervista a Tatiana Brodatch.
Se da piccola non riuscivi a dormire, cosa vedevi di notte dalla tua finestra?
Vedevo una befana che indossava i jeans «bottcut» di velluto a coste, beige. Stava arrampicata sull’albero davanti al mio letto al quarto piano. Aveva la faccia antipatica e mi faceva molta paura.
Che paura avevi?
Avevo paura di venire separata dalla mamma… Classico.
Come senti che sia stata la tua infanzia?
Ero molto introversa e alcuni accostamenti familiari mi erano difficili. Poi a sette anni, a scuola, è iniziata la mia rivolta contro il sistema comunista. Insomma, volevo stare da sola a disegnare, scappare da tutto e da tutti.
Cosa ti faceva felice?
Mi faceva felice stare insieme alla mia mamma. Ma solo io e lei. Ho in testa questa immagine delle sue mani con la tazza grande di caffè e un pezzo di formaggio a colazione. Ho le sue mani, bevo a colazione caffè americano con un pezzo di Asiago, che mi ricorda quelle mattine in cucina con lei.
Come sarebbe una serata ideale oggi?
Con la mia famiglia. Non li vedo da un mese e mi mancano molto. La pandemia ha reso tutto difficile.
L’arte contemporanea, che cosa è?
Non sono una esperta nella terminologia, ma per me “arte contemporanea” è quella attuale, quella che riflette il giorno di oggi pur parlando (soprattutto) degli argomenti eterni, i grandi temi dell’umanità, ma con un linguaggio contemporaneo.
Uno tra gli artisti che ammiri? Perché?
Uno… Difficile. Ce ne sono diversi. Ammiro decisamente quelli che sono arrivati ai novant’anni e sono morti con un pennello in mano, chiamiamoli i rolemodel, tra i quali Lucien Freud. Vorrei che le mie sculture fossero come i suoi dipinti. David Hockney, un altro veterano che non smette di lavorare né di fumare. Amo la sua pittura. Tra gli scultori: Rodin. Nessuno è sensuale come lui. E potrei continuare…
Se potessi chiedere a uno di loro qualcosa?
Chiederei della vita, di raccontarmi dei lavori, dei progetti, forse mi proporrei come modella per osservarli mentre lavorano.
Come hai trovato il tuo studio?
Arriva il momento giusto per tutto. Un giorno mi sono resa conto che a casa non riuscivo più a lavorare. Lo stesso giorno ho visto un negozio vuoto vicino casa che si affittava.
È un posto felice per me, pieno di mie opere, molto disordinato: plastilina, cera, creta sui tavoli, tante foto e disegni sui muri. Di solito faccio contemporaneamente diversi progetti ed è tutto ovunque. Ho una vetrina e mi chiudo con la tenda. Qualche volta è diventato anche spazio espositivo.
Ti piacerebbe vivere in studio?
Assolutamente no. Ho bisogno di un posto separato e privo di frigorifero. Mi piace molto «andare al lavoro» anche se sono cinque minuti in bici da casa mia.
Ho visto i ritratti che hai fatto in plastilina e sono rimasta colpita. Li fai dal vivo o lavori su immagini?
Dal vivo. Mi piace molto lavorare con i modelli, soprattutto se devo ritrarre la persona. Nonostante io usi un materiale piuttosto strampalato che è la plastilina —ma secondo me anche molto contemporaneo – mi piace lavorare sui ritratti in modo molto tradizionale, con il soggetto in presenza. È una esperienza unica, sia per l’artista che ritrae sia per chi è ritrattato.
Com’è quel momento?
Il processo è molto particolare, molto faticoso, anche. Devo concentrarmi nel cogliere quel qualcosa che la persona, lì davanti a me, ha di suo, personale e distintivo. Ma sul livello quasi psicologico, che poi si rispecchia nel corpo – nella postura, nel gesto… Dagli occhi, quello che vedo viene processato dentro di me, non so bene dove, ma di sicuro non nella mia testa, ed esce dalle mani per entrare nella plastilina. Non riesco a lavorare più di un’ora e mezza o due così. Mi stanco molto.
Chi sceglie la pose per il ritratto?
Io. È l’artista che comanda.
Quanto è importante o meno conoscere la biografia dell’artista per guardare l’Opera?
Tu forse me lo chiedi intendendo lavori tipo Quadrato nero di Malevic, che è difficile percepire fuori dal contesto e circostanze dell’artista. Ma ti dico che il discorso “biografia” ha preso un’altra svolta, oggi.
Negli ultimi anni, con dei movimenti come “me too”, si è scoperto che tanti artisti di talento si sono comportati nella vita in modo socialmente non accettabile. Male. Chi di più, chi di meno. Le loro opere sono state cancellate dai libri d’arte.
Si mettono in discussione i talenti dei geni degli anni passati alla luce dei fatti piuttosto scuri della loro vita privata.
L’Artista ha una sensibilità elevata, che porta spesso ai traumi. O viceversa, i traumi vissuti affilano i sensi. Gli artisti raramente sono un esempio del socialmente consentito, sono spesso dei caratteri molto controversi, a volte marginali, ma forse proprio da lì nasce la loro straordinaria creatività, lo sguardo diverso sul mondo. In questa chiave di “cancelling culture” rischiamo di rimanere con dei musei vuoti.
Detto ciò, penso che la biografia di un artista sia importante, ma bisogna tenere distante la dimensione privata da quella pubblica.
Cos’è l’arte. Per chi?
Me lo chiedo sempre, e lo chiedo agli altri. Penso che l’arte sia la rappresentazione fisica, materica (sia nell’immagine/forma che nella parola, nella musica, nella danza) del trascendentale, di ciò che non è materia.
Arte è quello specchio dove si materializza l’anima del tempo.
Intervista a cura di Mercedes Viola