Per Giulio Perrone Editore nella Collana Fiamme è uscito nel luglio scorso il libro Ballata per la Sirena di Arturo Belluardo. Scrittore nato a Siracusa che ha esordito nel 2017 con “Minchia di mare” per Elliot, a cui ha fatto seguito nel 2019 “Calafiore” per Nutrimenti. In questo nuovo romanzo, le richeste di una madre morente al figlio potente e razzista danno inizio a una narrazione onirica e fantastica incentrata su un mito, quella della Sirena del titolo.
#
Arturo per la nostra rubrica settimanale di Satisfiction comincerei col chiederti come è nata l’idea e come hai scelto il titolo per questo romanzo che segue l’andamento melodioso delle ballate?
L’idea del romanzo è nata dal più bel racconto italiano del Novecento (almeno per me), “La sirena” di Tomasi di Lampedusa, con il suo intreccio perfetto di carnalità e morte, di nostalgia e mitologia, le cui pagine trasudano profumo di Sicilia, alghe e onde. Erano anni che pensavo di confrontarmici, senza mai osare. Poi dopo aver letto il poemetto “Lighea” di Mariagiorgia Ulbar, che rilegge anche lei le pagine del creatore de “Il Gattopardo”, non ho voluto essere da meno… Ho iniziato a studiare le sirene, guidato da sirenologhe illustri come Meri Lao e Laura Pugno, e più andavo avanti, più mi rendevo conto che di sirene avevano scritto autori grandissimi, oltre ai classici greci e latini: Kafka, Melville, Malaparte, Brecht, Forster, Heine. Anche Camilleri, in “Maruzza Musumeci”. Avevo bisogno di un approccio diverso. E’ stato durante un seminario di Qabbalah della morà Yarona Pinhas che è venuto fuori il tema della presenza femminile di Dio nel mondo, la shekinnah, il tema del femminile perduto, della madre con cui è necessario riconciliarsi: madre che non è solo madre carnale, ma la terra dove siamo nati, il mare, la lingua, la mitologia, quella parte bella e alta di noi che è capace di pietà. E al tempo stesso la madre è anche quella scorza che ci protegge e che rischia di soffocarci, che ci impedisce di vedere la luce. Quella membrana del cervello che è stata battezzata (per un errore di traduzione dall’arabo!) Dura Madre. Questo doveva essere in realtà il titolo del libro, ma poi ci siamo accorti che esisteva già un romanzo di Fois con lo stesso titolo. Allora abbiamo voluto richiamare “l’andamento” del libro, che deve molto al mio amore per il jazz e per la musica in genere, e abbiamo pensato alla struggente “Ballad to the Siren” di Tim Buckley. Che tradotto è diventato “Ballata per la sirena”.
#
“Mia madre è stesa gelida di fronte a me e non mi rivolge nemmeno uno sguardo. Fissa imperterrita i neon verdastri del soffitto e mi ignora. Nonostante la fatica che ho fatto per arrivare fin qui, per stare vicino a lei, per esaurire i suoi desideri, per portarla via. Come da richiesta soffiata, vibrante, imperativa.
«Portami a mare. Riportami al mio mare».”
Inizia così il tuo romanzo con queste parole che la madre del protagonista, in punto di morte, sussurra al figlio, un uomo violento, razzista, sessista, e gli confessa di essere una sirena, di voler recuperare la sua coda in fondo al mare.
L’ultimo desiderio della donna è l’inizio di una storia che ci piacerebbe sintetizzassi tu per i nostri lettori fin dove puoi?
La storia, in realtà, è abbastanza semplice: l’avvocato, un uomo di potere, spietato e razzista, viene chiamato al capezzale della madre morente e inizia per lui un viaggio nelle memorie e nei luoghi dell’infanzia, che però non coincidono con i suoi ricordi. Più ripercorre il rapporto tra sè, la sua terra e la madre, più l’avvocato si sente spaesato e fuori posto. Finché la madre non gli rivela di essere stata una sirena, di rivolere la sua coda e di voler essere sepolta in mare. Qui inizia una seconda avventura per l’avvocato, scoprire il luogo dove la coda è nascosta, con un percorso che si nutre di mitologia, e trafugare il corpo della madre per restituirlo al mare. E questa è la parte, se vuoi, più comica e grottesca del romanzo: non è affatto semplice rubare un cadavere… Quando l’avvocato finalmente si imbarca su una barchetta da pesca… qui mi fermo, per non svelare troppo. Diciamo che la vena fantastica e mitologica diventa preponderante, unita però a una presa di coscienza sociale, politica da parte di quest’uomo così grezzo: il rendersi conto che il Mediterraneo è una tomba liquida, un immenso cimitero sul cui fondo giacciono corpi e corpi di migranti morti nel tentativo di raggiungere una vita migliore. C’è anche un personaggio di contorno che ricorda Salvini e che fa lo stesso discorso di Piantedosi a Steccato di Cutro. Purtroppo sono stato un facile profeta.
Un viaggio scaturito da questo incontro/scontro con la Madre. Un viaggio che scuote il lettore immerso tra le nefandezze e le sgradevolezze del quotidiano fino alla conquista di una nuova e moderna pietas. Il tutto per un romanzo estremamente colto e raffinato. Ci porti nell’officina di lavorazione e ci racconti come hai lavorato per arrivare a un romanzo linguisticamente perfetto?
Io sono molto lontano dalla sistematicità di scrittori come Philip Roth, che si imponeva di scrivere almeno una pagina al giorno e che invidiava Updike, che riusciva a scriverne la bellezza di tre. Sono molto disordinato, parto da un’idea, da una tematica che voglio affrontare e leggo, leggo moltissimo, per uno, due, tre anni. Prendo appunti, scrivo lacerti di pagine, diari, racconti (che magari pubblico on-line) per sperimentare l’approccio e la lingua che voglio utilizzare. Nei miei primi due romanzi avevo costruito uno schema abbastanza rigoroso, addirittura in “Calafiore” avevo prima scritto tutta la storia del protagonista e poi la storia dei suoi antagonisti, i giovani cannibali. Dopo poi ho fatto opera di sintesi e contrappunto. Per la Sirena sono partito da poche paginette buttate giù mentre passeggiavo per i monti della Val di Rabbi, durante gli incontri cabbalistici cui parlavo prima. Dopodiché sono andato avanti in maniera assolutamente “jazz”: mi sono costruito una base ritmica, un basso continuo, che erano la rabbia, il risentimento e l’aggressività del protagonista, e su questa ho innestato le “armonie”, i racconti, gli appunti di cui ti dicevo. Salvo poi lasciarmi andare all’improvvisazione più pura, lasciandomi trascinare dal linguaggio del romanzo. Mi interessava una lingua che non fosse (o non fosse solo) “bella”, ma anche sperimentale. Che non completasse le frasi, che facesse ricorso agli anacoluti. Mi sono accorto dopo che larga (e inconsapevole) parte avevano avuto i poemi classici riletti per l’occasione: l’Odissea, l’Eneide, le Metamorfosi di Ovidio, i Frammenti Eleusini, i cori delle tragedie. Mi sembrava di buttare dell’acqua su un tavolo di marmo vicino a una finestra e poi di giocare con un dito a spanderla in ghirigori luminescenti, in bollicine iridescenti… Di recente ho letto ne “Il mestiere dello scrittore” che ho adottato, senza saperlo, lo stesso approccio di scrittura jazz che usa Murakami. Non so se il mio romanzo sia linguisticamente perfetto, so che ho voluto che il linguaggio fosse predominante rispetto alla trama, tutto sommato esile. Volevo una lingua che fosse il vero conduttore della trama, che trascinasse nelle situazioni e nei quadri narrativi, anche lasciandoli irrisolti, aperti ai suggerimenti e alla partecipazione del lettore.
Buona Lettura di Ballata per la Sirena di Arturo Belluardo.
Antonello Saiz