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Barbara Garlaschelli ricorda Guido Leotta, editore di Moby Dick

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Non è necessario che tu mi ascolti, non è importante che tu senta le mie parole/ no, non è importante, ma io ti scrivo lo stesso ( eppure sapessi com’è strano, per me, scriverti di nuovo, com’è bizzarro rivivere un addio…)/ Ciao, sono io che entro nel tuo silenzio.

Josif Brodskij
 

Non posso scrivere di te senza scrivere a te. E ci siamo scritti un sacco, sempre, da quando ci siamo conosciuti, un giorno di tanti anni fa alla Libreria del Giallo di Tecla Dozio a Milano (e tra i molti meriti che ha avuto quel luogo è che ho incontrato tante persone che, poi, sono diventati cari amici). Tu eri qualcosa di più: eri anche l’uomo che, insieme a mio padre, rappresentava la “purezza” d’intenti, l’integrità morale, la passione, la dolcezza e le durezza mescolate in una miscela che poteva diventare esplosiva. Sempre costruttiva, però, mai distruttiva.

Qui voglio parlare di noi, di me e di te.

 

La prima volta che ti ho visto, quel giorno alla Sherlockiana appunto, mi sono presa una cotta per te (Silvia, lo ha sempre saputo, posso scriverlo): dovevi presentare un libro di Giampiero Rigosi -altro grande amico comune con il quale hai fatto e scritto molte cose insieme – pubblicato dalla tua casa editrice Mobydick. Eri arrivato con il sax, ma prima di suonarlo hai cominciato a parlare e a raccontare del libro di Giampiero e di quanto, per te, fossero importanti i racconti , nel senso proprio della forma racconto. Io che fino a quel momento avevo scritto solo quelli e mi ero sentita ripetere un miliardo di volte che “i racconti non vendono e non li vuole nessuno” ti ascoltavo attentissima. E poi la tua voce bassa, i tuoi modi gentili, la tua faccia bellissima mi hanno incantata e questo incanto è durato fino a oggi e durerà per sempre.

 

Ciò che ammiravo in te era la visione del mondo e della vita: una festa serissima che richiede passione, coraggio e coerenza. La tua è stata una lotta perenne per affermare una necessità di cultura scevra da compromessi mercantili e non perché snobbassi l’aspetto materiale della faccenda (avere una cooperativa che si occupa di libri e arte non può non contemplare il confronto con il mercato), ma non volevi che il tutto si riducesse solo al mercato.

Giovanni Nadiani, tuo amico e socio e complice, come amavi definirlo, scrive di quanto “ti piaceva festeggiare con amici e sconosciuti: la festa per un grammo di bello! tuo cruccio per tutti coloro che non volevano e non vogliono capire (enti pubblici o privati, politici dirigenti funzionari, avari slacciatori dei cordoni della borsa): che è questo amore per il bello e la sua condivisione ad aiutare a far crescere una comunità. Non era vuota retorica, ma la realtà che vivevi professionalmente sulla tua pelle, rinunciando a sicurezze economiche d’altro tipo. Un amore per il bello non improvvisato.”

L’improvvisazione la concepivi nella musica che facevi con i Faxtet, il tuo gruppo jazz, formato dai tuoi grandi amici. Ma nella scrittura, nella professione di editore, non esisteva, per te, improvvisazione. Esisteva ricerca, lavoro, correzione e correzione e correzione fino a raggiungere la perfezione, che sì, è personale, ma che nella scrittura si palesa come riconoscibile a tutti.

 

Quando ho pubblicato la prima versione di Sirena, volevo te perché avevo bisogno che quel libro fosse amato, per primo dall’editore. Te l’ho spedito un pomeriggio e dopo due giorni mi hai scritto una lettera bellissima (una delle tante che mi scrivevi. Tu eri l’unico che ha continuato a scrivere lettere senza soccombere alla praticità delle mail, pure se alla fine usavi anche quelle, ma non quando dovevi comunicare qualcosa che ti stava particolarmente a cuore) in cui mi dicevi che l’avresti pubblicato entro l’anno.

E poi c’è stata, tra le atre, l’avventura di FramMenti. Quale altro editore sarebbe stato così folle da pubblicare un libro sui folli? E non un saggio e nemmeno un romanzo, ma una sorta di reportage tra realtà e poesia. Non hai esitato un momento quando te l’ho fatto leggere. Non solo, insieme ai Faxtet e a Elena Bucci lo hai trasformato in uno spettacolo teatrale che arrivava dritto al cuore e al cervello di chi vi assisteva.

 

Quest’anno avresti portato in scena un mio sogno: Lettere dall’orlo del mondo un piccolo libro che non avevi pubblicato nemmeno tu, ma un’altra piccola casa editrice, Ad est dell’Equatore. Ma per te la cultura era anche questo: condivisione, partecipazione, serietà, divertimento. Amore per tutte le mille sfaccettature della vita e delle persone. So che sarebbe venuto uno spettacolo bellissimo e sarebbe stata un’altra occasione per stare insieme e stare bene, come riuscivamo sempre.

Mi accorgo che potrei andare avanti a scrivere di te per pagine e pagine, anche se iniziando questo pezzo avevo pensato: “Non posso farcela. Non riesco a scrivere di Guido.” Troppo dolore. E, invece, è accaduto quello che accadeva sempre con te: mi sono lasciata trasportare dalla tua voce e dalla musica che avevi dentro.

Avevi un cuore grande anche se un po’ acciaccato e non c’era mai un momento in cui non pensassi anche gli altri. E in questi tempi veloci e feroci, averti come amico era un’assicurazione per la vita, per questa cosa strana che ci spreme sino al sangue e ci lascia attoniti.

Di una settimana fa il tuo saluto in una mail, per me Giampaolo e mia madre. Concludevi con “Una stritolata d’abbracci”.

Ecco, Guido, quel tuo abbraccio me lo sentirò addosso tutta la vita. Chissà se tu sentirai il mio?

Barbara Garlaschelli

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