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Baudelaire. Dal fango all'oro

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Baudelaire, il poeta della modernità. Modernità, naturalmente, intesa non come contemporaneità ma periodo storico definito, trascorso, andato… un passato maledettamente (è il caso di dirlo) inattuale. Nel 1857 viene pubblicata la scandalosa raccolta, un centinaio di liriche e ultraliriche (licenza poetica mia), che inaugura la stagione maledetta della poesia: sbocciano I fiore del male, denunciati dalla direzione della Sicurezza Pubblica per oltraggio alla morale (pubblica, per l’appunto) e offesa alla morale religiosa (per non scontentare nessuno). Nello stesso anno, stessa sorte inquisitoria toccava al capolavoro di Flaubert (Madame Bovary): questa volta però, colpo di scena, con assoluzione finale. Del resto, che modernità sarebbe stata, senza il teatralissimo battesimo della censura? Explicit lyrics ante litteram.

La mia domanda: il tempo trascorso è forse riuscito a cancellare la maledizione da quest’opera sublime? Parrebbe di sì, a studiare le intense e pregevoli pagine critiche di Stefano Agosti (Baudelaire, dal fango all’oro, il Saggiatore 2019). Fatta però la doverosa premessa secondo cui, a parere del sottoscritto, decifrare un segno poetico equivale a disinnescarne la potenza anarchica. La maledizione era, in fondo, un’oscurità originale, un’affezione morbosa di forma e di contenuto, la maledizione si ha quando “l’inchiostro diviene sangue” – diceva qualcuno. E dunque a noi, poveri lettori ammutoliti, non restava che il male dire, letteralmente, versi e versificatori, costretti ad un’esegesi impossibile a fronte di una scrittura squisitamente ineffabile. Baudelaire, tra poemi d’hashish e intimi diari, porta la carica poetica ad una tensione ed un limite tali che la scrittura lirica diviene un vero e proprio esilio: laddove morirà Rimbaud, invocando Allah, dopo aver trasformato il silenzio in assoluto; laddove l’impossibile, desiderato da Mallarmé, langue nascosto in una pagina bianca; laddove Verlaine impazzì, avendo cantato e disegnato arcobaleni di suoni.

Decifrare il genio di Baudelaire richiede rigore analitico e ardire metaletterario: con il rischio, scavando troppo a fondo, di strappare e sradicare questi benedetti fiori del male, sì da poterli invasare a centrotavola, nel proprio salotto. La critica è creatura squisitamente moderna, ca va sans dire (come genialmente narrato ne Il critico come artista del dandy per eccellenza, Oscar Wilde). L’accumularsi delle epoche storiche pesava sulle nostre spalle di studiosi vecchi e calvi (“che c’entra Catullo con le vostre teste calve e senza peccato!” strillava Yeats). L’idea di un’immediata e pura fruizione estetica dell’opera d’arte è oramai un miraggio; lo è persino per l’arte cosiddetta figlia del nostro tempo… dunque necessarie e, ancora una volta, benedette siano le spiegazioni, le introduzioni, le postille… accessi necessari a mondi, rituali e culture sempre e comunque lontane nel tempospazio; anche se il poeta in questione dovesse essere l’amico coetaneo e vicino di casa.

Secondo Bataille, il male è il fondamento stesso della letteratura; e questo male, per un certo verso, ci conduce a Dio, attraverso un’intima e catartica espiazione, che è il meccanismo stesso della lettura. Giustificata o meno che sia questa affermazione (qui espressa in modo volutamente forzato e frettoloso), è pur vero che le poesie sono sempre fatte di parole, e che queste parole vanno tra loro composte, ritmate, incastrate, rimate, arabescate, sia come immagini sia come suoni… “vocali! io dirò un giorno le vostre origini segrete…” quale materia profonda ed intricata, a dir poco, essa richiede seri specialisti e sudate carte. La poesia, per gli addetti a questi fanatici lavori metaletterari, opera su livelli sconosciuti ai più, parla altre lingue oltre la propria (già intensa e misteriosa), quasi si trattasse di un rebus cosmico, da risolvere con la concentrazione dei grandi giocatori di scacchi. Vera e propria mania sapienziale, certo non per tutti, anzi per pochi davvero; del resto, si tratta di libri che trattano di altri libri, in una babele di specchi nel deserto (che sarebbe certo piaciuta a Borges) che attira una particolare categoria di folli e visionari, che ha tutta la mia ammirazione: per la capacità di reggere uno sguardo così metodico e preciso sull’abisso (con tutto ciò che ne consegue), e per la felicità di inoltrarsi -e perdersi, of course!- nel pericoloso sahara della scienza che chiameremo ultralirica.

 Livio Pacella

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