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Beatitudine&Delirio. Il monaco nero, 1894, Anton Čechov

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Il professor Andrej Vasil’ič Kovrin era sovraffaticato e aveva un esaurimento nervoso. Non era in cura, ma così, di sfuggita, davanti a una bottiglia di vino, ne parlò con un medico suo conoscente, e questi gli consigliò di passare la primavera e l’estate in campagna: non c’è dubbio, in parte è come dici tu: il godimento che traeva dai suoi studi era senza limite, teneva un corso di psicologia, ma in generale si occupava di filosofia, era orfano, e per padre ebbe un tutore, ossessivo e maniaco del lavoro e dell’ordine: prima andò nella sua proprietà di famiglia di Kovrinka (si era in aprile) e lì trascorse tre settimane in solitudine. Poi appena le condizioni della strada lo permisero si recò in carrozza dal suo antico tutore ed educatore Pesockij, un frutticoltore conosciuto in tutta la Russia… certo, per lui l’esaurimento è stato una sconfitta, un limite, una mancanza: inammissibile. Andò a riposarsi dove il rigoglio era tutt’uno con la festa e con la disciplina: il parco antico, cupo e severo, in stile inglese, si stendeva per un chilometro buono dalla casa al fiume e lì terminava in una riva argillosa alta e scoscesa, su cui crescevano pini dalle radici nude simili a zampe pelose… c’era sempre un’atmosfera tale, che veniva voglia di mettersi a scrivere ballate. Ma non mancava l’allegria odorosa e la fresca rinascita di rose, gigli, camelie così fantastiche, tulipani di tutti i colori possibili e immaginabili. La presenza del suo antico educatore, dici tu, iniziò a lavorare sulla sua mente affaticata ricordandogli la mancanza fondamentale dei suoi genitori, eppure Kovrin restò tutta la sera con Tanja e dopo mezzanotte andò con lei in giardino… e nonostante la compagnia piacevole e graziosa in campagna continuava a condurre una vita nervosa e inquieta come in città. Leggeva e scriveva molto, studiava l’italiano e, quando passeggiava, pensava con piacere al momento in cui si sarebbe rimesso al lavoro. Dormiva così poco che tutti se ne stupivano… e tu hai detto che il godimento ossessivo e mortifero non lo lasciava perché la struttura della sua personalità non aveva metabolizzato la legge del Nome del Padre, quella che pone un limite al desiderio eccessivo e letale, per questo doveva continuare a compensare questo fallimento, questa mancanza, studiando. Una sera dopo il tè egli sedeva sul balcone a leggere. In salotto in quel momento Tanja e una delle signorine, rispettivamente soprano e contralto, e il giovane violinista stavano studiando la celebre serenata di Braga. Kovrin ascoltava le parole – erano russe – ma non riusciva proprio a capirne il senso. Finalmente, abbandonato il libro e messosi ad ascoltare attentamente, capì: una fanciulla dall’immaginazione malata udiva di notte in giardino dei suoni misteriosi, talmente sublimi e strani che doveva riconoscervi un’armonia sacra che da noi, mortali, non viene compresa e perciò se ne rivola nei cieli. Ecco l’inizio sotterraneo dello scatenamento della psicosi: lui s’identifica con questa ragazza, (la malattia, come la definisci tu, è l’invischiamento col desiderio Materno, e tra l’altro, come sua madre, egli era ammalato di emottisi). Quando il canto s’interruppe, prese Tanja a braccetto e uscì con lei sul balcone. Ecco cosa le disse: “È da stamattina che ho in testa una leggenda… non ricordo se l’ho letta da qualche parte o se l’ho sentita, ma la leggenda è piuttosto strana, assurda…” (tu dici che: è ovvio, la leggenda non è altro che il significante scatenante, è ciò che non è stato simbolizzato e che ritorna nel reale: la castrazione… quel trauma originario che ci ha separati dalla Cosa del godimento primordiale, facendoci desiderare in modo normale, non mortifero…),“…mille anni fa un monaco vestito di nero camminava nel deserto, non so dove, in Siria o in Arabia… a qualche miglia di distanza da quel luogo, dei pescatori videro un altro monaco nero, che si muoveva lentamente sulla superficie del lago… il miraggio produsse un altro miraggio, poi questo un terzo, cosicché l’immagine del monaco nero cominciò a trasmettersi all’infinito da uno strato dell’atmosfera all’altro… lo vedevano ora in Africa, ora in Spagna, ora in India… la vera sostanza, il vero nocciolo della leggenda consiste nel fatto che esattamente mille anni dopo che il monaco camminò nel deserto il miraggio ricadrà dall’atmosfera terrestre e apparirà agli uomini. Dobbiamo aspettarci il monaco nero da un giorno all’altro”… ecco, per te la castrazione simbolica non è avvenuta e il professore rigetta ciò che mai ha simbolizzato: il Nome del Padre che frena il godimento mortifero e regola i limiti. E così, mentre camminava nel parco cercando di ricordare dove mai avesse saputo o letto di questa leggenda, Kovrin si fermò sconcertato. All’orizzonte, come un turbine o una tromba d’aria, si alzava dalla terra al cielo un’alta colonna nera. I suoi contorni erano vaghi, ma fin dal primo momento si poté capire che non stava ferma
, ma si muoveva a velocità spaventosa, si muoveva proprio in quella direzione, dritto su Kovrin, e quanto più si avvicinava tanto più piccola e distinta diventava… era un monaco vestito di nero, con il capo canuto e le sopracciglia nere, le mani incrociate sul petto, gli sfrecciò accanto… i suoi piedi nudi non toccavano terra.
Il fenomeno allucinatorio è questo monaco portato dal vento come soffio sul marmo, la compensazione della sua sconfitta. Eppure aveva una gran voglia di raccontare tutto a Tanja e a Egor Semënyč, ma pensava che probabilmente avrebbero preso le sue parole per un delirio e che la cosa li avrebbe spaventati; meglio tacere.

Il rapporto immaginario tra lui e la realtà era crollato, il canto della fanciulla malata lo mise a confronto con quel difetto simbolico che da sempre esisteva in lui: la forclusione del Nome del Padre. È chiaro che si trovava lì perché era ammalato. La festa lo espose pubblicamente al suo fallimento. Aveva bisogno di qualcosa che lo rassicurasse e ristabilisse la sua compensazione immaginaria, il suo narcisismo. E quel qualcosa infine giunse, e egli divenne gioioso, rideva forte, cantava, ballava la mazurka, si divertiva, e tutti, gli ospiti e Tanja, trovavano che quel giorno aveva un viso particolare, radioso, ispirato, e che era molto interessante… per te è facile dire: fenomeno allucinatorio, psicosi, malattia mentale. Lo sapeva benissimo anche lui di essere malato: “Eppure sto bene, e non faccio del male a nessuno; dunque nelle mie allucinazioni non c’è nulla di cattivo,” questo pensava e tornava a sentirsi bene. Per me ebbe ragione il monaco: “La leggenda, il miraggio e io – tutto è un prodotto della tua immaginazione eccitata. Io sono un fantasma… ma la tua immaginazione fa parte della natura, dunque esisto anche in natura…” e poi: “Il vero piacere è nella conoscenza, e la vita eterna aprirà innumerevoli e inesauribili sorgenti di conoscenza…” ma il povero professore rispondeva: “Se so che sono uno psicopatico, posso credere a me stesso?” e prontamente il monaco: “Ma come fai a sapere che gli uomini geniali, a cui crede il mondo intero, non abbiano visto anch’essi dei fantasmi? Ora gli studiosi dicono che il genio è affine alla follia. Amico mio, sono sani e normali soltanto gli uomini mediocri, quelli del gregge…” Kovrin era il ritratto della felicità. Trovò l’amore, sposò Tanja, e questo fu anche il desiderio del suo educatore Egor, padre della sua dolcissima sposa… Quello che aveva detto il monaco nero sugli eletti di Dio, la verità eterna, il fulgido avvenire dell’umanità, eccetera, dava al suo lavoro un significato particolare, eccezionale, e riempiva la sua anima d’orgoglio, di coscienza della propria altezza… lui era un genio, lo sapeva, una volta il monaco gli apparve durante il desinare e si sedette in sala da pranzo vicino alla finestra… e anche Egor Semënyč e Tanja ascoltavano e sorridevano allegramente, senza sospettare che Kovrin non parlava con loro, ma con la sua allucinazione. Ma tutto finì una notte in cui Kovrin non riusciva a prendere sonno per via del caldo e di Tanja che continuava a parlare nel sonno: alle quattro e mezzo accese la candela e vide il monaco seduto sulla poltrona… “E se dovessi suscitare l’invidia degli dei?”scherzò Kovrin e rise. “Se dovessero privarmi delle comodità e costringermi a soffrire il freddo e la fame, allora dubito che la cosa mi andrebbe a genio.” Tanja si svegliò: guardava il marito sgomenta e inorridita… si strinse a lui come per difenderlo dalle visioni, e gli chiuse gli occhi con la mano… “Tu stai male!” singhiozzò, tremando in tutto il corpo. “Perdonami, amore, caro, ma è già molto che ho notato che la tua anima è sconvolta da qualcosa… La tua è una malattia psichica…” La mattina dopo lo portarono dal dottore. Cominciò a curarsi… I pini cupi dalle radici villose che l’anno prima l’avevano visto così giovane, gioioso e pieno di vigore, ora non mormoravano più, ma stavano immobili e muti, come se non lo riconoscessero… Tutto mutò in peggio, e tu la chiami guarigione: lei non riusciva più a ridere e cantare, a pranzo non mangiava nulla, non dormiva per notti intere… il padre negli ultimi tempi era molto invecchiato, mentre il marito era diventato irritabile, capriccioso, cavilloso e poco interessante… una volta Kovrin disse: “Come furono fortunati Buddha e Maometto o Shakespeare che i buoni parenti e medici non li avessero curati dall’estasi e dall’ispirazione!”

Il tempo passava, cupo e silenzioso, Kovrin fu nominato titolare di cattedra. La prolusione era fissata per il due dicembre… ma il giorno fissato non si presentò: soffriva di emottisi… sputava sangue… ma questa malattia non lo spaventava, poiché sapeva che sua madre aveva vissuto dieci anni o più con la stessa identica malattia… il suo umore era quieto, rassegnato… quando Varvara Nikolaevna – così si chiamava la sua compagna – si accinse a portarlo in Crimea, egli acconsentì, benché presentisse che da quel viaggio non sarebbe venuto nulla di buono… di lì a poco morì Egor Semënyč, il suo educatore, e Tanja glielo scrisse in una lettera carica di odio e risentimento: gli augurava la morte: ormai la cura aveva scompensato il nostro Kovrin e egli scivolò del delirio paranoico: il fatto che l’infelice Tanja, annientata dal dolore, nella sua lettera lo maledicesse e gli augurasse la morte lo angosciava, e lanciava occhiate di sfuggita alla porta, quasi per timore che entrasse nella stanza e di nuovo s’impadronisse di lui quella forza ignota che in un paio d’anni aveva prodotto tante distruzioni nella sua vita e nella vita dei suoi cari…

Una sera accade qualcosa di strano e familiare, di perturbante: uscì sul balcone. La baia, come viva, lo guardava con miriadi di occhi azzurri, blu, turchesi e di fuoco e lo attirava a sé… stava per succedere di nuovo: sotto il balcone, dal piano inferiore, sentì un suono di violino e dolci voci femminili che cantavano una romanza: si parlava di una fanciulla dall’immaginazione malata, che di notte sentiva suoni misteriosi in giardino e li credeva una celeste armonia, per noi mortali incomprensibile… accadde di nuovo: un monaco col capo canuto scoperto e le sopracciglia nere, scalzo, con le mani incrociate sul petto, gli volò accanto e si fermò in mezzo alla stanza.

Perché non mi hai creduto?… se tu allora mi avessi creduto, quando dicevo che eri un genio, non avresti trascorso così dolorosamente e miseramente questi due anni” questo disse il monaco con affetto e rimprovero allo stesso tempo.

Kovrin cadde a terra e, sollevandosi sulla braccia, di nuovo invocò: “Tanja!”…invocava il grande giardino dai fiori rigogliosi spruzzati di rugiada, invocava il parco, i pini dalle radici villose, il campo di segale, la sua mirabile scienza, la sua giovinezza, l’audacia, la gioia, invocava la vita che era stata così meravigliosa. Vedeva sul pavimento… una grande pozza di sangue… Ecco, nonostante la cura il monaco era tornato, era tornato il delirio, e gli sussurrava che era un genio e che moriva solo perché il suo fragile corpo umano aveva ormai perso il suo equilibrio e non poteva più servire da involucro a un genio. Se tu avessi capito che è il simbolico in sé ad avere una mancanza nella sua struttura, è il linguaggio stesso che non può catturare tutto il godimento della Cosa… povero Kovrin, quando sua moglie Varvara Nikolaevna si svegliò e uscì da dietro il paravento… lui era già morto… la verità è che siamo tutti deliranti e ognuno reagisce a modo proprio per mantenere unita la realtà al proprio ideale: chi con il Nome del Padre… chi con un monaco nero, ciò che importa è essere felici e Kovrin lo divenne di nuovo: ora che era morto sul suo volto si era fissato un sorriso di beatitudine.

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