Questo è l’unico modo che ho per raccontare la mia esperienza di lettura. Per “emergere”, come una lingua di terra dimenticata, è necessario colloquiare con gli abissi.
Ciao Alberto,
eh già, sono proprio io. Ti starai sicuramente domandando perché abbia deciso di scriverti per la prima volta solo ora. La verità è che non lo so nemmeno io. O forse sì. Casuale che l’abbia fatto in questi giorni? Forse no.
Sono passati venticinque anni da quando te ne sei andato. Non una parola, non una visita al cimitero, non una sola volta in cui abbia parlato di te con qualcuno, non una telefonata ai tuoi genitori. Niente.
Potrei stare qui a snocciolare tutta una serie di alibi e di patetiche scuse: che avevo troppo da fare, che non avevo tempo, che non avevo il coraggio di affrontarti. Sappiamo entrambi come stanno le cose. Non l’ho mai fatto perché ho sempre avuto paura di ritrovarmi coi miei fantasmi.
Ti sembrerà ridicolo, ma ho deciso di farlo dopo aver letto un libro. Tu che odiavi leggere, me lo ripetevi spesso, non riuscivi proprio a capire come potessi passare tutte quelle ore davanti alle pagine. Tempo sprecato, dicevi. Sai, per me è sempre stato un modo per sfuggire alla realtà o, quantomeno, per crearmene una un po’ meno brutta, per dire a me stesso che un’alternativa c’era, che era possibile vivere in modo diverso. Sì, quell’alternativa che hai deciso di negarti, togliendoti la vita.
Non sono qui per giudicare o redarguire. Il dolore è stato lancinante, la rabbia tanta, ma se c’è una persona che riesce a capire il motivo per cui tu l’abbia fatto, quello sono io.
Mentre sono qui a scriverti queste righe, fuori piove e non posso fare a meno di pensare a quella canzone che a te piaceva tanto, November Rain dei Guns n’ Roses. Me l’avrai fatta ascoltare infinite volte, che fosse estate o inverno, non se ne poteva più.
Oggi mentre ero in macchina, mia figlia ha detto una cosa bellissima e mi ha riportato subito a te: “papà, quando piove io sento un’improvvisa calma, è come se la pioggia lavasse tutto, come se schiarisse alcune cose, come se facesse in modo che io riesca a tirarle fuori, magari con un disegno oppure mettendomi a cantare”. Sì, forse è proprio così, è la pioggia che dopo tutti questi anni mi ha portato di nuovo a te. Credo l’abbia sempre fatto, mentre fingevo di non accorgermene.
Il libro di cui ti parlavo è Emersione di Benedetta Palmieri. È un po’ come questa lettera, un’operazione a cuore aperto. Sì, lo so, sono banale, anche lei scrive una lettera a una persona che non c’è più e che ha deciso di farla finita. Ma, contrariamente a quello che si può pensare, non sono le parole di una donna che si lacera il petto alla ricerca di un perché. Lo scritto è dedicato non tanto a chi non c’è più, a ciò che manca, quanto a tutto quello che poteva essere ma non è stato.
Ti sarebbe piaciuto. È rivolto a diversi tipi di lettori, credo sia un libro in cui ognuno può trovare qualcosa, non necessariamente una risposta, ma quel pezzo di vetro che è andato a incastrarsi da qualche parte nella gola, o nello stomaco, e che in qualche modo sentiamo il bisogno di lasciare andare. Ci sono delle immagini molto belle, c’è un modo di descrivere i luoghi a lei cari che incanta, quasi come se stesse tracciando una cartografia del cuore. E la scrittura. Credo mi abbia fatto riconciliare con il mondo e con il modo di scrivere in questo paese.
Sai meglio di me quanto io abbia vissuto per contrapposizioni, quanto sia sempre stato bravo nel crearmi un nemico immaginario su cui sfogare e indirizzare tutte le mie frustrazioni. Forse è stata proprio questa la differenza tra me e te, tu a un certo punto non hai retto più, hai mollato. Io, pur mollando, avevo troppo da odiare per andarmene. Eppure sai cosa, Alberto? Sono stanco, sono esausto. Per anni l’odio è stata l’unica cosa che mi ha tenuto a galla, ma adesso non riesco più. Per congelare tutte le cose che ho dentro, ho fatto come quei grossi muli delle nostre campagne, sono andato avanti a testa bassa, ho fatto tutto quello che ci si aspettava e mi sono letteralmente massacrato di lavoro. Senza peraltro concludere mai niente, senza mai raggiungere un obiettivo.
Mi dicevi sempre che avrei potuto fare grandi cose, avevi stima di me, mi ammonivi di non credere abbastanza in me stesso. Avevo tutte le carte in regola per diventare qualcuno, dicevi. Invece ho scelto la strada più facile, quella del non fare.
Tra le tante cose di questo libro, ce ne sono alcune che ti vengono sbattute in faccia con una tale delicata ferocia, che non puoi semplicemente girarti dall’altra parte, come ho sempre fatto. A un certo punto Benedetta parla di questo suo amore finito da tempo, di questo uomo che le è rimasto dentro, il tipo di amore che sai che non potrai mai più provare, che è per sempre, perché quella è la tua persona. Non ce ne sono altre, ce n’è uno solo, l’incastro perfetto… Sapessi Alberto, quanto odio quella parola, perché appartiene ad un altro, non a me.
Ad ogni modo, a causa di questo amore finito, lei intraprende una strada di non ritorno, si costringe a un isolamento forzato. Il suo barricarsi in casa non è la ricerca di un rifugio e di un posto che la protegga, non è nemmeno un modo per scappare, è l’unica maniera che lei conosce per spegnere il suo sentire. Ed è quello che io ho fatto negli ultimi anni.
Avresti apprezzato il movimento complice che la protagonista condivide con l’alcol, quasi fosse una persona. Un generoso dare-avere. Per quanto questo possa sembrare paradossale (i danni dell’alcol sono innegabili), lei ne parla in modo dignitoso e consapevole. È lucida, lo affronta a viso aperto, ma sa che il bicchiere è l’unico mare in cui potersi immergere per provare un piccolo, breve istante di pace. Sorridi sornione, eh? Immagino. Tu lo ripetevi sempre, l’alcool e tutto il resto ti facevano sentire meno solo, per un attimo credevi di non essere l’unica anima disperata al mondo.
In questo libro ho ritrovato una cosa che mi rinfacciavi sempre. Dicevi che ero troppo incazzato, troppo triste, e io non riuscivo a spiegarti perché avessi così tanto bisogno di sentirmi così. È stata Benedetta a farlo. Per lei la tristezza non è uno stato d’animo, ma un modo di vivere, è quella malinconia perenne che ci fa sentire vivi, è ciò che ci restituisce il senso di giustizia, che ci fa reagire di fronte a tutte le brutture. È sempre lui, il nostro sentire, quella benedizione/ maledizione che ci portiamo addosso.
Quando nella seconda parte del testo pensavo ormai di aver perso qualsiasi tipo di contatto che mi riportasse a te, ecco che arriva la parolina magica: colpa.
Quella che ci viene instillata con l’imbuto, che ci viene cacciata dentro come fossimo animali ripieni, quella che ci paralizza e ci fa sentire inadeguati in qualsiasi situazione.
Non fare quella faccia, sai benissimo di cosa sto parlando. Tranquillo, questa non è una patetica lettera in cui ti chiedo di perdonarmi, anche perché non potresti farlo, l’unico che può farlo sono io. La notte in cui hai deciso di farla finita mi hai telefonato. Per anni ho fatto finta di non aver sentito il cellulare. Ho detto a tuo padre che l’avevo in modalità silenziosa, perché il giorno dopo avevo la sveglia alle sei per andare a lavorare. Balle, Alberto. L’ho vista la tua chiamata, ma non ho risposto, avevo sonno, non ne avevo voglia. Perché era una scocciatura, perché tu ti eri affezionato troppo a me, mi cercavi costantemente. Io rifuggivo a qualsiasi tipo di attaccamento, per me legarmi a una persona era veleno, dolore a pacchi. È complicato Alberto, ma te l’ho detto, non sono in cerca di alibi. È vero, mi hanno fatto delle cose orribili quando ero piccolo, ma questo non può giustificare nulla. Potevo salvarti? Forse no, tu avevi già deciso, ma per una volta avrei potuto provarci, e non l’ho fatto. Questo non me lo perdonerò mai.
Come Benedetta, da quel giorno mi sono trincerato, ho ricoperto tutto di ghiaccio, ho negato a me stesso la possibilità di far vedere chi sono realmente. Perché ogni volta era sempre la stessa storia, lo stesso ritornello che mi ripetevano da bambino: tu non ne vali la pena. Ancora oggi è così.
Ora leggo e faccio esattamente come lei, mi guardo da fuori, non mi piace ciò che vedo ma so esattamente quello che sta succedendo, proprio come viene descritto minuziosamente in Emersione. Non è un franare fragoroso, che fa un rumore assordante, è una frana silenziosa, un cedere senza recar disturbo, come dei vestiti che scivolano lentamente dal corpo fino ad arrivare a terra.
Vedi Alberto, nonostante questo, o forse proprio per questo, libri così ti ricordano che la bellezza è una possibilità, come quando guardi il sorriso di un bambino, è questa la grande infinita potenza della lettura, come di tante altre forme d’arte. Benedetta Palmieri lo sa, ne ha dato prova in questo piccolo immenso scrigno, la sua scrittura dona proprio quel tipo di bellezza agli occhi di chi legge. Avrei tanto voluto farlo vedere anche ai tuoi.
Ti abbraccio.
“Ecco perché poi quella bellezza ti mozza il fiato, acquisisce tanto peso, si dilata a dismisura, diventa la più bella: perché ti risarcisce, ti consente di sopravvivere, è aria dopo l’apnea.”
Marco Latini