Di Bentley Little, scrittore sessantaquattrenne dell’Arizona, si sa poco. È una persona schiva, non ama apparire in tv o sui social, raramente partecipa a reading, rilascia interviste. Se provate a digitare il suo nome sul pc vi appariranno al massimo due o tre foto, non proprio recenti. L’assenza mediatica di Little richiama quella di altri suoi colleghi più celebri, da Salinger a Pynchon. In tempi di sovraesposizione e di oscuramento dell’opera in favore del corpo del suo autore “il romanzo sei tu”, sottrarsi alle luci della ribalta è una scelta vincente: libera il testo da inutili sovrastrutture che divergono o distraggono dall’essenziale. Spesso il nome di Little viene accostato a quello di Stephen King: fateci caso, sulla quarta di copertina dei suoi libri non manca mai una frase, un apprezzamento del re del brivido. Ma il paragone, a mio avviso, regge poco.
Dietro la schiena di King qualcuno molti anni fa deve avere incollato l’etichetta di maestro dell’Horror. In verità King è uno scrittore realista che vira al metafisico, e se certe scene di Shining o di It fanno effettivamente saltare dalla sedia, non è da questi dettagli che si giudica un romanziere. Al contrario di King, Little è al 100% un autore Horror, genere che il nostro invisible novelist declina nella forma più inquietante dell’aziendalismo o del corporativismo. Sì, perché nelle storie di Little spesso il mostro non ha sembianze umane o aliene, il mostro è l’apparato, metafora di un potere più vasto e invasivo che si insinua nelle vite dei protagonisti, le sorveglia e le manipola secondo uno schema orwelliano (Orwell è un riferimento costante nell’opera di Little), in Italia diremmo fantozziano (nella filmografia di Villaggio il canovaccio è lo stesso ma in chiave tragicomica). In The consultant l’apparato è la CompWare, società californiana di software che evoca il colosso Google. In The resort, un accogliente polo turistico che poco alla volta si trasforma in un girone dantesco. Nel più recente DMV, in uscita in Italia il 6 settembre sempre con l’editore Vallecchi e la traduzione di Ariase Barretta, la fabbrica della paura è la Motorizzazione Civile, simbolo di una burocrazia asfissiante, illogica, liberticida.
Todd Klein è uno scrittore che ha conosciuto tempi migliori; vende ancora molti libri ma le recensioni dei lettori sono pessime. Il suo Ufficio stampa Woke gli suggerisce di scusarsi con la comunità asiatica perché nel nuovo romanzo fa parlare un cinese in un americano stentato. I “colletti bianchi delle nuove sensibilità” (citaz. di Luca Ricci) la chiamano “appropriazione culturale”. Dovendo sostenere un nuovo esame di teoria per rinnovare la patente di guida, Todd si ritrova inspiegabilmente invischiato in una vicenda assurda, kafkiana. Pensereste che il suo esame si risolva in una semplice formalità, e invece come spesso accade in queste storie, le cose più normali, i riti ordinari nascondono insidie imprevedibili, voragini, baratri di malvagità. Nei romanzi di Little il quotidiano finisce sempre per fare i conti con un’autorità superiore, una specie di regime nazista sotto mentite spoglie: il numero della nuova patente di Todd è lo stesso che aveva tatuato sul braccio la sua bisnonna ad Auschwitz.
Il campo di concentramento. È uno dei luoghi di DMV. Jorge, il cognato disoccupato di Todd, viene reclutato da due energumeni qualificatisi come funzionari della Motorizzazione. Prima di assumerlo lo sottopongono a un tirocinio durissimo dentro un lager che non ammette contatti con l’esterno. Jorge, come Todd e come i giovani Danny e Zal, finirà nel peggiore incubo della sua vita, in un labirinto di atrocità e di adempimenti beffardi che aggiungono perfino tratti di ilarità al racconto. In ogni storia di Little la dimensione dell’assurdo si configura come un compartimento stagno che non sfiora la realtà ma è dentro di essa. Eppure non c’è polizia o tribunale che facciano irruzione in quelle vite per ristabilire ordine e legalità, misura e giustizia: l’assurdo si compie oltre ogni limite, oltre ogni umana comprensione. DMV è un romanzo sull’eterna lotta tra il bene e il male, e sul pericolo che la nostre conquiste, le nostre libertà, vengano di punto in bianco minacciate da qualcuno. Un romanzo lungo (539 pagine) ma scorrevole, il cui punto di forza è essenzialmente la storia: Little è un abile inventore e costruttore di trame, in questo sì, molto simile a Stephen King.