Difficile per gli innamorati lasciare che l’amore vada in vacanza. Eppure ci sono momenti in cui si ha la necessità di prendere una pausa e guardarsi intorno. Così per me, folle e tenera amante di Shakespeare. Mi è dunque capitato per le mani un libro che prometteva svago, anche se l’occhio, attratto dal titolo, reclamava di non allontanarsi troppo dal seminato.
La congiura dei fratelli Shakespeare, di Bernard Cornwell (Longanesi, 2019, pp. 428, euro 22), non è però uno dei libri che tanto mi hanno appassionato di/su/per Shakespeare. Qui, il continuo rimpallo tra personaggi realmente esistiti e altri di pura invenzione, oltre a dire del bisogno inesausto che suscita il Bardo di narrare e rinarrarlo, fa intendere che chi si pone in questa prospettiva pensando di colmare le lacune e gli interrogativi riguardanti la sua esistenza (o la possibilità che quell’analfabeta nato e morto a Stratford abbia effettivamente potuto concepire i capolavori che ormai tutti conosciamo – attraverso la lettura delle sue opere, la visione teatrale o la riduzione cinematografica), chi tenta quest’operazione, insomma, voglia compiere più che altro un atto di tracotanza, non d’amore e di rispetto. Perché, romanzandolo a uso e consumo dei più, ne infrange il mistero. E lo abbandona nudo sul ghiaccio di un’estate spolpata. Certo, ci sono parti spassose in cui si mette in scena il dietro le quinte, la vita fatta di stenti degli attori del Cinquecento, tutti presi tra lo sbarcare il lunario e la minaccia dei puritani che, dal pulpito, scagliavano i loro anatemi contro il teatro, traviatore dei costumi, immorale e tentatore. Tutte cose vere, sì. Si mettono in luce i caratteri troppo umani di quegli uomini o di quei ragazzi costretti a vestirsi da donna per interpretare parti femminili che potevano cucirsi addosso solo per un certo periodo – quando avevano cioè quell’età indefinibile capace di confondere le carte; e si vede in controluce soprattutto l’attore di oggi, le sue manie, le insicurezze, le debolezze:
“Ogni volta che recitavo nel Theatre dovevo scalare la torretta. Non per qualche motivo razionale, per quanto ne sapevo, ma solo per la cocciuta convinzione che avrei recitato male, se non avessi affrontato quella scala a pioli indossando i miei pesanti e ingombranti abiti di scena. Non esiste attore che non sia superstizioso. John Heminges portava con sé una zampetta di lepre appesa a una catenella d’argento; George Bryan, nell’intervallo tra un brivido e una contorsione, si metteva in punta di piedi per toccare una trave del soffitto del camerino; Will Kemp costringeva la nostra Jean a baciarlo; e Richard Burbage sguainava la propria spada e ne baciava la lama. Mio fratello tentava di fingere di non ricorrere ad alcun rituale di quel genere, però, quando credeva che nessuno lo stesse guardando, si faceva il segno della croce. Non era un papista, ma la volta in cui era stato sfidato da Will Kemp, che l’accusava di leccare il lurido deretano della Puttana di Babilonia, si era limitato a scoppiare in una risata. “Lo faccio”, aveva spiegato, “perché è stata la primissima cosa che ho dovuto fare su un palcoscenico. Quantomeno, la prima per cui sono stato pagato”.
E così tra riti scaramantici e scazzottate, piccoli furti e messinscene a palazzo, tra sgarbi e invidie tra antagonisti e la vista della vecchia e vergine regina Elisabetta si snoda la vicenda di Richard Shakespeare, fratello meno fortunato di William, a sua volta attore in cerca di visibilità e della pagnotta, che deve pensarle tutte per scampare alla forca. È la storia del furto di un manoscritto tramite cui si raccontano, quando non inventate di sana pianta, le trame di Sogno di una notte di mezza estate o di Romeo e Giulietta. Per quanto riguarda il Sogno, e per fare l’esempio di uno scrittore delle nostre parti, molto entusiasmante era stata la lettura del “romanzo” di Filippo Tuena (Com’è trascorsa la notte, Il Saggiatore, 2017) che attraversava l’esperienza dell’innamoramento concesso dai folletti, ma lasciava spalancate le porte sul proseguo dell’opera shakespeariana: Romeo e Giulietta come resa dei conti a proposito dell’amore facile, il suo risvolto beffardo. “Precipiteremmo all’infinito se non incontrassimo ostacoli a interrompere il nostro precipitare. E al fondo di questo precipizio troviamo, indissolubilmente legati, il meraviglioso e il perturbante, la gioia e la disperazione”, dice Tuena. L’immagine della caduta torna anche in un’altra riscrittura shakespeariana, quella di Nadia Fusini, a proposito de La Tempesta (Vivere nella tempesta, Einaudi, 2016): “Come se si potesse cadere per sempre”, dice Fusini parlando del mare e dei suoi abissi, “ senza mai toccare il fondo… Sono immagini di naufragio dove il sentimento dell’eternità si confonde con l’angoscia dell’immortalità, come se morendo non si finisse di morire… Come se non ci fosse fine all’atto di morire”, che è lo stesso di cadere nel tempo, cioè nascere, secondo Marina Cvetaeva. Perché amore e morte… lo sappiamo, no? Cadere nella trappola di Amore, d’altronde, è condizione necessaria per essere amanti: to fall in love, dice l’inglese. Come cadere nella disperazione, scivolarvi dentro, sentendo la distanza che sempre separa, incolmabile. Ancora Tuena:
“Sono andati via. Rimane ancora qualche bagliore argenteo, qualche bisbiglio femminile e poche risate, ma la scia sta svanendo. Non ti accorgi, adesso, come sia sopraggiunto il freddo, il silenzio, lo sgomento? come la luce dell’aurora, quell’impenetrabile azzurro spietato che interrompe la quiete della notte, invada silenziosamente questa casa e questo palcoscenico? I maghi, i taumaturghi sono andati via, lontanissimi, forse irraggiungibili. Qui siamo rimasti noi, gli umani, gli spettatori e gli attori, i personaggi fragili, quelli che vanno a tentoni, che a fatica correggono gli errori, quando e se si rendono conto d’averli commessi. Che ne sarà di noi senza i consiglieri del fantastico? senza quel mostriciattolo a farci da tramite? Non vedi come tutto, adesso e improvvisamente, si colora di livido; come ci si sente soli; indifesi. Vorrei averti più vicina, però non so se capisci, se ti rendi conto di quel che sta accadendo”.
È un’operazione diversa, quella di Cornwell, lo capisco. Ma a mio parere molto lontana dallo spirito dell’originale. Il romanzo storico è difficile da comporre, rischia forte, soprattutto di cadere nel macchiettistico (e qui non è una caduta amorosa); nel racconto per il racconto; nella semplificazione – che è quanto di più lontano si possa concepire pensando ai lavori del Bardo e a tutto ciò che ne abbiamo tratto. Non che il teatro non sia fatto anche della stoffa scadente dell’uomo che per un tratto lo incarna, ma: quale la necessità di trarne una soap opera? L’estate sta finendo, meglio tornare ai vecchi e cari amori e chiedersi con Antonio e Cleopatra:
Cleopatra: Se davvero è amore, dimmi quanto.
Antonio: È povero l’amore che si può misurare.
Cleopatra: Voglio conoscerne i confini.
Antonio: Allora dovrai scoprire nuovi cieli, nuove terre.