Letto tutto d’un fiato in una notte, Il mistero del cinema, edito dalla Nave di Teseo e scritto da Bernardo Bertolucci in occasione del conferimento della laurea honoris causa nel 2014 da parte dell’Università di Parma.
Curato da Michele Guerra, con una toccante prefazione di Clare Peploe, è un testo di sfolgorante sintassi nel quale il regista raccoglie alcuni spunti di riflessione sul proprio lavoro, da lui stesso definito «la mia magnifica ossessione».
Un bel libro, che mi ha sorpreso per come spazia a volo d’uccello su cinquant’anni di cinema, partendo dalla sua infanzia emiliana a Parma, a Baccanelli poi a Casarola, col padre poeta e critico Attilio, la madre Ninetta e il fratello Giuseppe.
Attilio è quell’Attilio Bertolucci, immenso poeta, che per due anni ho avuto modo di frequentare nel suo appartamento a Trastevere, oppure nei vari reading che ha tenuto nella Capitale sino alla fine, oppure a Lerici dove l’ho incontrato una ultima volta, seduto su una panchina, lo sguardo rivolto verso il porticciolo, silente, ormai inaccessibile.
Il libro ripercorre, anzi sottolinea, l’influenza decisiva che ha avuto il padre sulla formazione di Bernardo, quel genitore che amava il cinema e che tornava a casa dopo la visione del film mettendosi al telefono per dettare la sua critica a braccio al redattore di turno della Gazzetta di Parma. A braccio, sì, senza correzioni. Questa elasticità mentale, questa idoneità connaturata alla parola e ai concetti sarà da esempio per il figlio sul cosa sia produrre arte.
Bernardo poi ripercorre il suo apprendistato a Roma con Pier Paolo Pasolini sul set di Accattone. Racconta le cene in trattoria col padre e Pierpaolo, Alberto Moravia, Elsa Morante, Adriana Asti; racconta la fascinazione assoluta esercitata su tutti loro dal Neorealismo, in particolare da Rossellini, Visconti, De Sica, Zavattini; racconta i suoi primi componimenti poetici (In cerca del mistero) sotto l’influenza decisiva del padre; racconta i suoi primi tentativi cinematografici, per cui a ventuno anni gira il suo primo lungometraggio La comare secca (1962).
L’anno dopo girerà Prima della rivoluzione, divenendo l’enfant prodige del cinema italiano. Gira anche un documentario per l’Eni di Mattei, La via del petrolio, quindi un lungometraggio sperimentale Partner. Tra il 1969 e il 1970 gira Strategia del ragno e Il conformista, per me il suo capolavoro.
Bertolucci prosegue raccontando della sua adesione incondizionata alla Nouvelle Vague, di cui diverrà più di un membro onorario, per lo spirito di libertà creativa che riuscì a imprimere al modo di concepire un film. Da qui si arriva alla sua amicizia con Jean Luc Godard e alla nascita dell’idea di un cinema costruito come gioco di specchi che non deve necessariamente riprodurre la realtà così come si manifesta, ma interpolando, snaturando, farla scaturire da una energia inedita e fresca, così da inserirla nel dibattito politico, trasformandola in uno strumento fondamentale di cambiamento.
Era l’insegnamento dei Surrealisti, in specie Luis Bunuel, che però doveva pur sempre adempiere all’idea di entrare in una dimensione magica dove tenere sempre una porta aperta a una rilettura della sceneggiatura, come Jean Renoir gli disse una volta a Los Angeles nel 1974.
Poi lo scandalo di Ultimo tango a Parigi (1973) per la fotografia di Storaro, con un Marlon Brando strepitoso, una Maria Schneider in stato di grazia, bandita in Italia a causa del film.
Il film stesso verrà condannato, censurato per decenni da questa Italietta bigotta e semi fascista in anni di crudele contrapposizione ideologica, preludio agli Anni di piombo avvenire, che non a caso segneranno la fine della politica.
Poi Novecento, film epico e colossale, tutto incentrato sulla sua Emilia rossa, sulle lotte contadine, sulle Camere del lavoro di inizio secolo, sul Fascismo imperante, sulla Resistenza che fu prevalentemente comunista e azionista, con un cast stellare che vedeva tra gli altri Burt Lancaster, Robert de Niro, Gerard Depardieu, Donald Sutherland, Dominique Sanda, Stefania Sandrelli, Alida Valli e la colonna sonora di Ennio Morricone.
Il film intendeva dare una definizione del cosa sia stata l’Italia negli ultimi cinquanta anni di storia. Voleva segnare uno spartiacque, srotolare una bandiera rossa chilometrica che fosse decisiva, infissa per sempre nella memoria collettiva di un paese troppo spesso dimentico del suo passato.
In seguito verranno altri film, La tragedia di un uomo ridicolo, La luna, Il tè nel deserto, quest’ultimo tratto dal romanzo di Paul Bowles, che il regista convincerà a interpretare la sua parte. Proprio Il tè nel deserto mi vedrà in disaccordo col padre Attilio per cui la mia definizione di capolavoro era fuori luogo.
Poi gli anni della fascinazione suscitata dall’Oriente e dal regista Yasujiro Ozu, di cui visita la tomba nel 1984 assieme alla moglie (sulla lapide dell’artista giapponese non vi è inciso nulla tranne l’ideogramma Mu, che significa “Nulla”).
L’influenza di Ozu lo porterà a girare il suo terzo capolavoro dopo il Conformista e Ultimo tango a Parigi, cioè L’ultimo imperatore (1987), che lo consacrerà a Hollywood con l’Oscar per la migliore regia e che paradossalmente segnerà per Bernardo anche l’inizio del suo declino creativo.
Da qui la fuga dall’Italia corrotta, funestata da mafie e trame, inghiottita da un bieco conformismo ora però tutto libertario, nichilista, ignorante, foriero della prossima deriva populista.
Girerà ancora. Ci saranno Io ballo da sola, The dreamers e in ultimo Scarpette rosse, un corto di nemmeno due minuti sulla condizione delle strade di Trastevere, proibitive per i disabili come lui che da anni era costretto sulla sedia a rotelle. Un libro da leggere, scritto da uno dei grandi del cinema mondiale.
Marcello Chinca Hosch
Recensione al libro Il mistero del cinema di Bernardo Bertolucci, La nave di Teseo 2021, pagg. 108, € 8,00