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Berta Bojetu anteprima. Filio non è a casa

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Un’isola diventa il palcoscenico di un programma brutale di manipolazione sociale: “Da tempo è stato deciso che avrebbero vissuto separatamente, che rendono di più se vivono ognuno per sé, che secondo le stime statistiche sarebbe stato proficuo lasciar riprodurre una stirpe di idioti che lavorano e muoiono”.

Le donne, rassegnate, temono la presenza di una ragazza libera: “Hanno paura per l’isola, con le scarpe potresti ferirla perché è fatta di sabbia. Il vento porta via la sabbia, così col tempo non ci sarà più un’isola. Loro sono nate qui e moriranno qui. Hanno paura che il vento, col tempo, possa portar via la sabbia che le ricoprirà dopo la morte”.

La violenza sessuale emerge come forma di controllo: “Il naufragio mi aveva ammutolita per settimane ma ero rimasta particolarmente scossa dalla notte con il padrone. Mi aveva stroncata fin dall’inizio. Lo stupro, di cui fino a quel momento avevo solo sentito parlare, per me era stato come la frusta per una giumenta troppo altera. L’autorità con cui mi aveva inchiodata a terra mi aveva trascinato in uno stato di profondo risentimento e prostrazione”.

È in libreria Filio non è a casa il romanzo di Berta Bojetu tradotto da Patrizia Raveggi (Voland 2023, pp. 288, € 19).

Attrice, poetessa e scrittrice slovena, Berta Bojetu autrice anche di diversi racconti e opere teatrali, è soprattutto riconosciuta e apprezzata per i suoi due romanzi: Filio non è a casa (1990) e Ptičja hiša [La casa degli uccelli] (1994). È morta a Lubiana nel 1997.

In un’isola remota uomini e donne vivono separati e gli uomini esercitano il loro dominio sulle donne con brutalità. Tuttavia, tutti sono soggetti a regole assurde di un proprietario senza nome che risiede sulla terraferma. In questo scenario, Filio ha trascorso la sua crescita con la nonna Elena e il giovane Uri: sono le tre voci a cui Berta Bojetu affida la narrazione di un luogo inquietante, dominato dall’istinto di sopravvivenza e da emozioni di paura, odio e sospetto verso il prossimo. Un’opera di straziante durezza in cui i protagonisti cercano di opporsi alla distruzione della loro individualità con creatività e forza vitale.

Da una parte c’è la perdita dell’amore per la libertà: “Ho bisogno della sensazione di essere tenuta in pugno e comandata. Mi sento più sicura”.

Dall’altra un sistema che rende gli uomini schiavi obbligati a esercitare la violenza: “Era come noi. Sottomesso, ma subito dopo terribile quando ha detto: “devi calpestare gli altri perché loro non calpestino te.”

L’autore dipinge con spaventosa immediatezza la violenza nei rapporti con gli altri, la strumentalizzazione delle donne e degli uomini, le prime schiave sessuali da stuprare per riprodurre il sistema, e i secondi schiavi e stalloni stupidi.

Una letteratura profonda e inquietante che racconta l’intensità di sentimenti ed emozioni di esseri umani senza libertà.

Carlo Tortarolo

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Chiacchieravo, in un gruppetto di persone in piedi al centro dello spazio espositivo, chiacchieravo, in attesa che il vernissage si concludesse. Ogni tanto mi voltavo, cercando con lo sguardo l’uomo che aspettavo. Lo avevo conosciuto qui. Di solito entrava, chinava il capo, mi salutava, faceva un paio di giri tra i quadri, e io, nel frattempo, a causa del gran brusio di voci intorno a me, lo perdevo d’occhio. Questa volta non volevo lasciarmelo sfuggire. Mi infastidiva vederlo sparire, dopo essere arrivato pieno di curiosità. Faceva sempre così.

Fui distratta dal movimento dei gruppi. Conoscenti di altre gallerie, colleghi e volti familiari si disposero in un semicerchio da me all’oratore. Colsi qualche parola sul premio della Biennale, sulla danza e sul volo delle donne uccello, sul successo della mostra. L’evento passava in fretta, ma era sempre faticoso.

Lui era in piedi davanti alla porta.

La gente mi si avvicinava e si congratulava con me. Ero preda di una grande irrequietudine. Avevo bevuto un aperitivo e subito dopo un altro. Lui era ancora lì. Mi avvicinai. Sentii una pressione improvvisa e forte sulla schiena. Non sapevo, o forse l’avevo dimenticato, che questo movimento sotto le scapole potesse essere tanto potente. Avevo paura che qualcuno se ne accorgesse, così mi appoggiai con le spalle al muro, allungai il braccio e come saluto ricevetti una asciutta stretta di mano. Avvampando per lo sforzo, alzai la testa e abbozzai un cenno all’uomo dai capelli castani e ricci.

Strano, non l’avevo mai guardato veramente, ma ora con gli occhi lo lambivo come avrei fatto con la lingua. Mi sembrava calmo e buono. È talmente magro che se volasse sarebbe tutto un fremito, pensai. Era lì, fermo, in piedi, quasi mi stesse aspettando.

Ha lavorato molto negli ultimi due anni” attaccò lui.

Sì” dissi e cominciai a scostarmi lungo il semicerchio, anche perché avevo l’impressione che le scapole mi sollevassero la camicetta, soprattutto quella di destra. L’eccitazione si stava diffondendo alle braccia, alle gambe e soprattutto alla schiena. Notai il suo imbarazzo, silenzioso e al tempo stesso irrigidito, come per paura. Mi allontanai e mi aggrappai a una colonna, per resistere alla violenza di quell’impatto. È così quando dipingo, pensai, si manifesta meno strepitosamente, ma è così. Tremavo, un brivido mi scese lungo la schiena. Alzai la testa per scuotermi, ma una conoscente mi aveva già afferrato per il gomito e mi stava trascinando verso un gruppo poco distante.

Mi voltai. Lui non c’era più.

Non rimasi a lungo, devo camminare e stare tranquilla, riflettei, se non me ne vado subito e non rimango da sola sarà devastante, una mazzata. Non mancava molto fino al molo. Riuscivo a malapena a percepire il crepuscolo calare anche su di me e il muro lungo il quale stavo camminando. Volevo raggiungere casa. Con lentezza, come per paura di perdere quello che avevo dentro e che non mi permetteva di procedere, continuai nello sforzo di muovermi. Il peggio erano le braccia e le gambe, sentivo la schiena che mi si sollevava, fremeva, tremava eppure era immobile. Qualcosa stava crescendo come un fiore, foglia dopo foglia, sotto la scapola destra, diventava sempre più grande e con il suo peso mi tirava a terra. Una cosa oscura, aliena dentro di me insisteva ossessivamente per costringermi a riposare. Aprii la porta e mi trascinai sulla cassapanca nell’ingresso. Che sollievo.

Mi svegliai. Ero raggomitolata e senza aprire gli occhi cominciai a riflettere sulla serata.

Ieri sera era la quarta volta che sperimentavo questo stato. Ebbi la sensazione che volesse convincermi ad andar via. Stanotte sono rimasta, e anche oggi sono qui, mi rallegrai. Mesi fa mi era accaduto in modo più blando, più malaticcio, e a causa della nausea non avevo provato nessuna gioia. La scorsa notte c’era stata gioia, mi ricordai. Allora, quando l’attacco era arrivato, stavo terminando il quadro di mia madre. Volevo correggerlo un po’, le piume della coda mi sembravano troppo rade, troppo corte per le zampe vigorose e gli artigli troppo affilati per quel bel viso.

Di lei, solo il volto era rimasto, avevo pensato in quel momento. E allora, d’un tratto, si era scatenato. Avevo vomitato, con la schiena tesa, le braccia e le gambe pesanti, la testa mi pulsava e registrava un altro ricordo, lo apriva e lo piegava tra i fotogrammi di alcuni uccelli, da tempo dimenticati, e in qualche modo, in modo speciale, miei.

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