Bilanciamento del bianco, la prima opera poetica italiana di Oana Pughineanu-Oricci, edita da Fallone nel 2024, collana Il fiore del deserto, racconta il disfacimento, l’immagine fotografica che diventa acido e corrode il tempo. La scrittura di Pughineanu segue la precisione della curva cardiaca fino allo spegnersi del desiderio e presenta «un resoconto di un crollo, di una dissoluzione fisica, biologica, familiare, morale». Lo sguardo della poesia tratta il materiale visivo e la carne con pragmatica chirurgica, fredda ma non disumana, visto che la vicinanza e l’empatia del gesto che osserva ci giunge come informazione emotiva, sicché la parola diventa «lo shutter della [mia] macchina fotografica mentale». Se il perimetro tempospaziale dismisura i confini del quotidiano «questa poesia fa riferimento al momento esatto in cui senti le porte che si chiudono» e proprio questo aprirsi del chiudersi, questo espandersi claustrofobico fanno la cifra della scrittura poetica simile a una «fotografia post-mortem» che conduce chi legge alla propria condizione mortale, al proprio essere sempre in un transito post-mortem, attimo per attimo. E il paradosso di non uscire dai confini genera una liberazione dal poli(e)ticamente corretto, dal pensierocensura e dall’estetica dell’impegno, un’estensione dello «spazio di movimento mentale, stilistico, esistenziale». Bilanciamento del bianco natura il trapasso e lo fa eventualità del quotidiano, e il gesto poetico fa a meno di non fare poesia, traduce lo spostamento di dimensioni, crea, ma la parola non è a tutti i costi, non è poesia\letteratura «che deve per forza fare qualcosa» e in questo lasciarsi abbandonare scrivere da\fa l’immagine di un avveniente, di vuoto nella desideranza…
Qual è stata la genesi del tuo libro e perché hai desiderato scriverlo?
Questa poesia nasce da un pezzo di vita che non ho voluto vivere, nasce da una paralisi emozionale davanti all’implacabile, trasposta in una lingua che non è la mia prima lingua, ma che proprio per questo mi ha costretto a dire l’essenziale in un modo che si avvicina allo stile di una cronaca. Ho sentito che solo usando una lingua ”straniera” potevo trasporre quella paralisi. Il libro è un resoconto (ho provato ad allontanarmi dalla metafora e dall’immaginazione) di un crollo, di una dissoluzione fisica, biologica, familiare, morale. Un resoconto di come ho vissuto con la malattia e la morte nella mia testa, nella mia famiglia, nella mia città o anche circondata da persone che applicano la fede al modo in cui pensano la cura, l’amministrazione di farmaci. Per me era insopportabile sentire tutte le metanarrazioni, tutte le credenze, tutto quello che provava ad abbellire e dare speranza. La banalità è stata come una stampella mentale. Ho vissuto in una “tragiquotidianità”. Ho sentito il bisogno di ripetere il più ripetibile, di raccontare il piccolo che diventa enorme, o l’enormità che diventano banali a contatto con la fine. È la poesia di un nichilista (che non crede in nulla, nemmeno in quello che pensa) ma continua vivere e fare tutto quello che si fa perché tutto è ugualmente assurdo.
Quando scrivi, godi?
Quando scrivo sento un tipo di distacco, una estasi negativa (senza la sensazione di beatitudine, perché “godo” solo della distanza, ma non sento che c’è qualcosa più grande che mi può accogliere). È una sensazione simile a quella di fare una fotografia (soprattutto street-photography) quando tramite una inquadratura puoi creare un oggetto, diciamo, estetico. Quando scrivo una poesia ho questa sensazione di aver trovato un oggetto quasi ready-made. Lo colgo soltanto, faccio il taglio e diventa una cosa in sé. Alla fine è una distorsione, un montaggio ma nello stesso tempo ho la sensazione che “è quello che è”. In queste inquadrature possono entrare cose banali o cose terribili. Raramente mi trovo nello stato mentale che mi permette di fare un taglio “pulito”, quando la mano non trema. Sento un abbassamento delle passioni (un vecchio sogno della filosofia) o forse divento lo “psicopatico funzionale” (come quelli descritti di Kevin Dutton, per esempio, i grandi chirurghi che non perdono mai la calma). Io non riesco a tagliare nella carne viva, ma a volte, raramente, nella scrittura posso premere lo shutter della mia macchina fotografica mentale.
Un estratto dal libro che è risultato più difficile o particolarmente importante: perché? Lo puoi trascrivere qui?
Per me è la poesia ”your time is the next”.
your time is the next
mangiamo
piantiamo fiori
scattiamo foto con i boccioli
ungiamo gli occhi appena screpolati dei gattini
mangiamo
prepariamo torte e pezzi di carne per la risurrezione di Gesù
mangiamo
lo zingaro e sua moglie passano in carrozza per raccogliere rottami metallici
guardano le case a due piani come noi guardiamo i boccioli
mangiamo
sta diventando sempre più chiaro che
stiamo morendo insieme
fissati come pezzi di canditi in una colomba.
non esiste altro tipo di morte
e dopo che l’abbiamo capito
non ci trasmettiamo più malattie
solo le cifre del chilometraggio
mentre aspettiamo il nostro turno
e pochi in casa hanno ancora energia
per mettere le foto su instagram
Questa poesia segna il momento in cui capisci che sei chiuso in una realtà impossibile da cambiare. Che “la vita va avanti” ma in questo modo e con questo risultato che non si può smontare. Quando ti trovi davanti una persona con una malattia terminale puoi adottare varie strategie mentali. Una di queste è il vivere giorno dopo giorno, ogni momento staccato dall’altro. Dentro ogni momento forse puoi costruire una storia, o anche trovare piccole gioie, ma non puoi cambiare the big picture. La nostra mortalità è the big picture. Vedere un corpo sparire come se fosse divorato da termiti invisibili mi ha provocato una sensazione di soffocamento. Mi ricordava la sensazione orrenda che ho in aereo quando si chiudono le porte e il capitano dice “crew cross check”. La sensazione di non poter più scappare. Siamo chiusi in questo aereo, in questo corpo, in questa mente, in questa storia e non c’è nessuna via di uscita. Ho questo ricordo di quando da piccola ho volato una volta nella cabina dei piloti. Uno di loro ha notato quanto ero stressata e ha detto: “Dai! Su! Non si è mai visto un aereo rimasto in aria!” Lui ha cominciato ridere e io ero paralizzata dalla paura. Penso che questa poesia fa riferimento al momento esatto in cui senti le porte che si chiudono. Il resto della raccolta è un resoconto del modo in cui l’aereo “non è rimasto in aria”.
Se non fosse scrittura, cosa potrebbe essere il tuo libro?
Fotografia. A volte qualcosa che è vicino alla fotografia post-mortem che era di moda in epoca vittoriana.
Che rapporto hai con la censura?
Una domanda molto interessante per qualcuno che viene dall’Europa dell’Est. Perché fino al 1989 si provava a resistere alle intrusioni ideologiche nella letteratura (abbiamo la famosa espressione “la resistenza tramite la cultura”). Sono più di 40 anni durante i quali un potere politico ha provato a spiegare allo scrittore cosa doveva essere la letteratura: dalla celebre formula stalinista dello scrittore come “ingegnere delle anime umane” fino alle “Tesi di luglio” del 1971 con cui Ceaușescu e il partito comunista provavano a rafforzare, dopo un periodo di “apertura” e “scioglimento ideologico” un socialismo fortemente nazionalista – sì, e una contraddizione in termini – lontano dall’URSS, ma anche dall’Occidente decadente. Questo non ha impedito che emergessero scrittori favolosi (il più famoso è Cărtărescu). Adesso, siamo arrivati “da soli” in un momento in cui leggi alcuni testi e ti sembrano scritti seguendo un manuale. È di nuovo di moda fare analisi ideologiche dappertutto. Non voglio dire che queste analisi non abbiano la loro utilità. È sempre interessante sapere come la letteratura si posiziona nel campo del potere simbolico di una società. Adesso, per esempio, in Romania, molti giovani critici sono affascinati dei metodi di analisi quantitativa di Franco Moretti che cerca in migliaia di testi dei pattern, avvicinando lo studio della letteratura allo studio di una specie biologica, tramite l’analisi di “big data”. Per quanto questo studio possa essere affascinante, per me rimane la domanda: e dopo questo? Capisco la necessità di questo approccio, non solo come critica verso le interpretazioni troppo “impressioniste”, a volte deliranti, della letteratura, ma anche questo approccio può essere visto come un tentativo di posizionare la letteratura nella società almeno come oggetto di studio. Dobbiamo sempre dimostrare con metodi scientifici che la letteratura si può studiare. Se possiamo tramite metodi scientifici rafforzare la letteratura come oggetto di studio, ci troviamo invece in difficoltà quando dobbiamo rafforzare il legame fra letteratura e pubblico. Qui incontriamo di nuovo l’ideologia… ci troviamo a confrontarci con la cancel culture, con il politicamente corretto. Oggi l’ideologia è vendibile, non e più una “falsa coscienza”. Ricordo un scandalo recente nel campo letterario romeno: dopo che un romanzo ha ricevuto vari premi, in un articolo, uno scrittore rom si chiedeva giustamente se nessuno avesse visto il razzismo del romanzo (per i modi in cui sono raffigurati i rom) e perché nessuno parlasse di questo. Ovviamente il Web si è spaccato in due: quelli per l’autonomia dell’estetica e la parte woke (diciamo). Solo un giovane critico è riuscito a dire: sì, e un romanzo razzista ma mi ha fatto piacere leggerlo. Non è difficile da capire che se esistono romanzi, personaggi, narratori o anche autori razzisti è perché il razzismo è qualcosa che non si può cancellare cancellando le parole. Non sarebbe più strano vivere in un mondo razzista in cui scriviamo solo storie come quelle nei film di Natale? Cancellare non è un’altra bugia? Non arriviamo così all’ipocrisia o anche alla frustrazione? Al terrore della società dei like, dove ognuno diventa poliziotto e il proprio agente pubblicitario, con la propria “macchina mass-media”? Non voglio dire che il linguaggio non abbia una forza performativa, che non importi come parliamo, ma ci vuole più tempo a cambiare una sensibilità che una parola, e dietro le nuove parole c’è sempre un altro potere. Lascio fuori la discussione sulla identità che è molto problematica. Penso che nessuno debba soffrire perché ha una identità e non altra, ma mi sembra giusta l’osservazione di Nancy Fraser quando parla di riconoscimento senza redistribuzione. Se vogliamo cercare dappertutto l’ideologia ovviamente lo possiamo fare. Ma in questo modo rimane sempre meno spazio di movimento mentale, stilistico, esistenziale. Io spero che sia ancora valida la bellissima definizione della poesia di Terry Eagleton che si può allargare per la letteratura: “A poem is both a system of rules, and a system of their violation”. Io non voglio scrivere pensando costantemente alla censura o alla ideologia. Quelle sono “dentro” di me in quanto non posso sfuggire al tempo, alla società di sorveglianza generalizzata.
Per te scrivere è un mestiere o un modo di contestare lo status quo?
Devo rispondere di no. Quando scrivo provo a non pensare allo status quo. Nella mia testa per contestare lo status quo si può cominciare con lo scrivere, ma non basta. Credo che si deve entrare nel mondo del fare (non mi piace usare la parola “azione”, né “lotta”). Nel mio caso si tratta di piccoli gesti (per esempio avere cura di cani abbandonati), e con questo non posso contestare nulla. Anzi, sento che la società ci abbandona nella nostra particolarità (sotto il seducente nome di libertà individuale) e che siamo forse anche abituati a trovare gratificazione in questo abbandono. Facciamo piccoli gesti perché non possiamo fare grandi gesti che “cambiano il mondo” soprattutto perché il mondo non esiste più. C’è una policrisi superpoliticizzata. Come sempre gruppi e gruppetti provano a lottare per potere e risorse. Ho pensato tutta la vita che non potrei fare mai il politico, decidere chi vive (bene) o chi proprio non vive. Ma lo faccio lo stesso, come consumatore che non vuole pensare allo status quo. Al massimo provo a minimizzare il contatto con il mondo per minimizzare il consumo. Raramente si trova qualcosa che non è una forma di consumo (quel consumo che vende “esperienze”). Da giovane sono rimasta molto colpita da queste parole di Kafka: “Nella lotta tra te e il mondo cerca di assecondare il mondo”. La mia scrittura nasce da questo mondo che vince da sempre dentro di me e a volte dal desiderio di non pensare più a chi vince e chi perde. Può la letteratura contestare lo status quo? Ho i miei dubbi. Non solo perché la letteratura fa fatica a trovare un pubblico, ma perché nella logica culturale di oggi, più che mai, è difficile arrivare a un pubblico se non come “esperienza”. Kundera era un scrittore che credeva nel potere della letteratura di farci vedere la complessità del mondo, per lui “scrivere non è predicare una verità. È scoprirla”. Vicino al moralismo letale per la letteratura troviamo anche la netflixazione (formule abbastanza rigide di entertainment). Può la letteratura offrirci qualcosa di cosi complesso, ironico o sperimentale da non essere (subito) netflixabile? O deve per forza farlo? Ho paura di caricare la letteratura di un’aspettativa precisa. Dal mio punto di vista, la capacità di essere ambigua e polisemica, anche quando “copia” pezzi di giornali o pubblicità (come facevano alcuni avanguardisti), è nella sua natura. Non voglio una letteratura che deve per forza fare qualcosa. Alla fine spero che la letteratura rimanga fra il testo e il lettore (non tanto fra autore e pubblico) e se questo incontro può ancora accadere, tra milioni di gatti adorabili su TikTok e tanti modi per ottenere più dopamina, diventa quasi un “atto” sovversivo.
Per me la scrittura non è un mestiere, nemmeno come nelle famose parole di Pavese, “il mestiere di vivere”. Soprattutto perché da qualche anno scrivo poco e non voglio pubblicare molto di quello che scrivo. Ho pensato a lungo anche se mandare o no nel mondo questa raccolta di poesie. Potrei trovare molte giustificazioni per la scelta di non pubblicare (etiche, estetiche, ecologiche), ma la verità è che vedere un mio testo diventare pubblico mi provoca una sorta di vergogna, come se fossi obbligata a camminare nuda sulla strada, come qualcosa di estremamente intimo. Forse uno psicanalista potrebbe spiegare perché, forse è collegato al modo in cui sento la libertà, al perché mi sento libera quando scrivo, libera di giocare a Tetris con le gabbie della vita.
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Oana Pughineanu-Oricci, Bilanciamento del bianco edito da Fallone nel 2024, collana Il fiore del deserto.