Chi è Billy Wilder? Chi era Billy Wilder? Gabriele Rizza, giornalista, critico teatrale e cinematografico ne traccia un ritratto ampio, ordinato, profondo, particolareggiato, attraversandone mondi e fondali, panoramiche e atmosfere, con meticoloso perfezionismo e uno stile effervescente, accurato, impeccabile. Un lavoro di svelamento continuo e a vari livelli sull’attività di un regista che è stato capace di regalarci la sua comicità pirotecnica, di farci entrare nei suoi perfetti meccanismi narrativi, nella grazia e leggerezza delle sue commedie o nel rigore dei suoi drammi. La biografia di Wilder è presentata con estrema cura di dettagli, precisa segmentazione delle fasi che attraversano le sue varie “stagioni”, (berlinese, parigina, newyorkese, ecc);le letture filmiche rendono esplicito il sottile piacere del critico nel maneggiare con maestria la sua materia. Da Double Indemnity – La fiamma del peccato (1944), passando attraverso il melò, la commedia, emergono alcune caratteristiche dei suoi film: la liquidità dei dialoghi, il ritmo delle inquadrature, la definizione dei caratteri, la dialettica della messinscena, la penetrazione psicologica dei protagonisti. Del resto, Wilder è stato instancabile esploratore dei vari generi cinematografici, dalla situation comedy al burlesque, dalla commedia al dramma, dalla satira al biopic, dal film bellico al noir, al gangster movie e tanto altro ancora. Emerge, dall’analisi di Rizza, il suo cinema istrionico, metaforico, ricco di accordi e disaccordi, incandescente, ironico. Provocatorio e audace nelle commedie, persuasivo e demistificatorio nei drammi. Insomma, emerge lo «stile» Wilder, un misto di ironia, sarcasmo leggerezza, estro, effervescenza, paradosso. Nel capitolo Accordi / Disaccordi il critico rende ancor più chiara, al lettore, questa mescolanza di estro e paradosso, riportando indimenticabili passaggi scritti in cui il regista esprime la sua idea di sceneggiatura, di racconto, e tra le righe dei suoi scritti , anche un sottile pessimismo, una forma di disillusione sul futuro dell’umanità.
Wilder, filosofo dell’incompiutezza, cantore dell’inadeguatezza, delle interferenze (spesso inconciliabili) che governano le nostre vite è «anche» un artista che conosce il genere umano. I suoi film ci fanno ancora divertire, riflettere , immaginare, sconfinare e meditare. Billy Wilder è, per Rizza, un illuminista, fra i pochi del ventesimo secolo.
Rossella Nicolò
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[…] A voler raccontare, meglio cercare di raccontare, chi era, chi è stato «realmente» Billy Wilder, le tessere sfuggono di mano. Scivolano via. Si dissolvono dentro e fuori lo schermo. Difficile, se non impossibile, ricomporre il puzzle. I suoi film, certo, dicono molte cose su di lui, sul suo mestiere, sul suo modo di lavorare, sui suoi rapporti (non pacifici) con l’industria hollywoodiana, sulla sua personalità, la sua statura umana e professionale, ma non dicono tutto. Servono, ma non risolvono. Aiutano, ma non allentano i nodi. E allora? Che significato dobbiamo dare alle sue «creature»? Funzionano da specchio, paravento, cortina fumogena, trincea, scudo, confessionale? Sono immersioni nel suo privato, sono flusso e respiro, emersioni, tracce di un vissuto inaudito, soffi di intimità? Se poi ci affidiamo alla psicanalisi, facciamo un buco nell’acqua. Da europeo viennese che aveva incontrato Freud per motivi di lavoro (un’intervista fallita, toccata e fuga, una gag degna dei fratelli Marx con cui il Nostro avrebbe voluto lavorare, come pure con Stanlio e Ollio) e da americanizzato che deve guadagnarsi da vivere mettendo a frutto il suo talento, già sperimentato e collaudato in Europa, uno fra i tanti che affollano la «Mecca del cinema» per spingerne al massimo la macchina immaginifica, far divertire la gente, finanziare il sistema e gonfiare le casse dei produttori, il lettino era una trappola, una comoda finzione assolutrice da salotto borghese. E se ci fermiamo alle sue «impressioni», al suo «io» narrante che si dispiega negli anni, direttamene e indirettamente, con dovizia di particolari (particolari, appunto) e abbondanza di aneddoti (aneddoti, appunto), ci accorgiamo che anch’esse sono una affascinante, quanto irresistibile, altalena di contraddizioni. Mezze verità. Disguidi mnemonici. Interferenze subliminali. Billy è dispettoso, con quel perenne cappellino in testa, quel sorrisetto malizioso, la sigaretta fra le dita. Interrogato risponde, un po’ mente un po’ non ricorda, gioca con la memoria, i ricordi fanno brutti scherzi, deve mettere a fuoco l’inquadratura di prima (l’Europa) e di dopo (l’America), ama il depistaggio come esercizio intellettuale, ama il paradosso come espediente narrativo, un’arma per arricciare (arricchire e confondere) i baffi della verità. Una verità «paradossale», che per fortuna nessuno prende sul serio.
E allora? Da squisito conversatore e amabile affabulatore qual era, Billy Wilder si diverte a imbrigliare le fila del racconto e imbrogliare la mente (più che la vista) dello spettatore. La verità, come il paradiso, può attendere. Giuro di dire la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità per lui non vale. La verità smista lacerti di verità. Buona solo a generare improbabili enigmi. Vedi, solo per fare qualche macro esempio, la parabola giudiziaria di Testimone d’accusa, il mimetismo sfrenato di A qualcuno piace caldo, il rovesciamento affettuoso di Irma la dolce, il camaleontismo velenoso di Prima pagina, partiture dove il perfezionismo del mascheramento è spinto al massimo, è tutta una vertigine dello scambio, un irresistibile fraseggio dominato dall’ambiguità, travisare è lecito, percorso dal senso di un’apparenza ingannevole quanto mediaticamente eccitante.
Ma se la trama, le «dramatis personae» che la percorrono, vivono di questa «astuta» oscillazione, di questo ondivago spaesamento, di questa ostinazione a nascondersi, la fascinazione del camuffarsi, di questo carosello fatto di capovolgimenti, slittamenti progressivi, equivoci sentimentali e identità fittizie, barcamenandosi nel dubbio dell’eterno conflitto fra amore e interesse (cosa scegliere e ammirare di più nell’altro?), il lavoro ingegneristico, costruttore di mondi e fondali, panoramiche e atmosfere, svolto da Billy Wilder con coerente dedizione e meticoloso perfezionismo, lo accomuna a quello di un grande incantatore. Se i suoi personaggi mentono, per fini nobili o meschini poco importa, se si travestono, si scambiano i ruoli e l’età, se indossano un velo che ne altera la percezione e la visibilità, a mentire non sono le impalcature nelle quali agiscono, i meccanismi nei quali si dibattono. I film di Wilder non mentono. Sono il riflesso di una verità indiscutibile. Sono cinema. Solo cinema. Vero cinema: scritto, recitato, girato, montato, proiettato. «I miei film sono film e non diari o confessioni faticosamente cifrate per lo schermo. I miei film non sono grande cinema: sono cinema e basta». Sono una confezione coi fiocchi. Da scartare piano per assaporarne il profumo. Una confezione da Oscar. Senza sbavature […]