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Blaise Cendrars e Robert Doisneau anteprima. La banlieue di Parigi

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C’è una miscela esplosiva in quest’opera dal DNA fotografico e articolata su un metodo di lavoro capace di inglobare il tempo come in un’officina dove si forgiano, si fondono, si rifiniscono pezzi di storia . Gli effetti sono quelli di una scrittura prismatica, gravida di quelle tracce di corruzione che nemmeno il più potente degli obiettivi fotografici potrebbe penetrare . Nel 1949, nel clima di instabilità politica e sociale del dopoguerra, era apparso in Francia un singolare libro che aveva come oggetto d’indagine la miseria e il degrado della periferia parigina, frutto di un ampio progetto sviluppato da Blaise Cendrars, geniale scrittore e acuto intellettuale e Robert Doisneau, uno dei padri della fotografia umanista francese. Soggetti privilegiati delle immagini fotografiche erano gli esseri umani incontrati sul palcoscenico della strada e colti nella sfera dell’amore, della famiglia e del sociale per veicolare, in un periodo di ricostruzione post bellica, un’idea positiva per le nuove generazioni.

Anche in queste duecentoquaranta pagine complete del testo che accompagna le foto, tradotto da Federica di Lella , la periferia parigina è la vera protagonista, con le sue contraddizioni, la sua variegata umanità. Oggi come allora Doisneau ci fa viaggiare nella banlieue grazie a quel suo personalissimo linguaggio che attiva i sensi, la percezione di paesaggi sonori e ci allena a sostare tra gli echi di un mondo, non come ospiti ma con misurata vicinanza emotiva . Era il tempo delle lotte popolari condotte in nome degli ideali del Parti communiste français, l’era dei grandi scioperi che scuotevano la Francia del 1947, il tempo dei conflitti sociali, dell’impegno politico ed ideologico, dell’avvio del processo di modernizzazione di Parigi. La Francia del dopoguerra andava alla ricerca di immagini a corredo di giornali e riviste e Doisneau, anche per far fronte alle difficoltà economiche, iniziava un intenso lavoro di reportage e di immagini per uso pubblicitario. Il fotografo era nato in un sobborgo di Parigi nel 1912 e si era formato studiando litografia, presso l’École Estienne, ma aveva più volte ricordato come le più importanti lezioni di fotografia le avesse apprese proprio nelle strade dei sobborghi dov’era cresciuto. Lo scoppio della guerra non aveva interrotto la sua carriera fotografica; anzi, era entrato nelle fila della Resistenza, utilizzando le capacità acquisite all’École per l’invio di comunicati e la falsificazione di documenti. Negli anni immediatamente successivi alla pace, era stato testimone della ripresa economica, degli anni della contestazione giovanile, della ricostruzione, delle lotte operaie. Amava fotografare con spensieratezza d’ispirazione i bambini, i ragazzi dei quartieri periferici, il lavoro nelle fabbriche, nelle botteghe, nei mercati, i bistrot, i matrimoni come simbolo di felicità attesa e raggiunta, attraverso un uso sapiente della luce e dell’ombra. Del resto, – diceva spesso, – quello che cercavo di mostrare era un mondo dove mi sarei sentito bene, dove le persone sarebbero state gentili, dove avrei trovato la tenerezza che speravo di ricevere. Le mie foto erano come una prova che questo mondo può esistere.

Risale al 1945, ad Aix in Provence, il suo incontro con Cendrars (pseudonimo di Frédéric-Louis Sauser) scrittore svizzero naturalizzato francese (si era dato il nome di Cendrars, braci per suggellare il proprio impeto creativo). Nomade d’istinto, a soli sedici anni era salito sul primo treno di passaggio e si era ritrovato a Mosca; poi era giunto in Cina. Un’esistenza improntata ad un irrefrenabile vitalismo che di lì a qualche anno aveva cominciato ad esprimersi nell’eclettismo della sua scrittura. Poeta, narratore, saggista, reporter, sceneggiatore, fondatore di riviste culturali, uomo d’affari, intellettuale che ebbe una forte influenza sulle avanguardie artistiche e letterarie di inizio XX secolo. Non sorprende dunque che uno dei più attivi talenti della scena culturale europea e un fotografo d’eccezione abbiano dialogato per sviluppare congiuntamente quel singolare progetto pubblicato nel 1949, La Banlieue de Paris.

Cendrars, lo scrittore svizzero, per il suo racconto autobiografico, sceglie l’esperienza dei viaggi che lo hanno portato in paesi lontani, ma lo hanno comunque ricondotto sempre alla periferia parigina. Anche Doisneau ha trascorso la sua infanzia nella periferia: nato a Gentilly, ha lavorato dal 1939 come fotografo indipendente per la stampa nazionale e dal 1937 ha vissuto nella periferia sud di Montrouge. Il risultato di questa collaborazione è un testo-spartito e una visione che sembra correre lungo le inquadrature. Emerge, in maniera significativa, il difficile rapporto tra i due linguaggi che non devono necessariamente armonizzarsi, coesistere; possono anche a prescindere l’uno dall’altro. Un libro-rivelazione che delinea percorsi intellettuali diversi ma al contempo duttili, atti a far emergere il valore dato alle singole esperienze .

Mio caro Doisneau, da quindici giorni lavoro solo per te. Credo che una foto scattata dal treno sulla linea Montparnasse- Versailles o dal treno elettrico Invalides-Versailles non starebbe male nel volume. In quella zona, tra Bas- Meudon, Belleville, Sèvres, c’è un panorama urbano industriale,

Parigi, la Tour, la Senna, le fabbriche della Renault e due linee ferroviarie sovrapposte e dei viadotti e i fumi di Boulogne. Non sarebbe una cattiva idea andarsene un po’ in giro da quelle parti. Sta a te trovare l’angolazione più favorevole. A questa veduta del Sud vorrei che facesse da pendant una veduta del Nord, sempre panoramica, o la banlieue Aubervilliers- St-Denis vista dal Sacré-Coeur o i binari a raggiera del Nord e dell’Est, pieni di fumo, visti dal ponte di boulevard de la Chapelle. Pensaci. Potremmo metterne una in apertura e l’altra in coda come risguardi. Farebbero un bell’effetto insieme alla Tour Eiffel sulla copertina! Con la mia mano amica.

La lettera, datata 18 luglio 1949, è una delle tante testimonianze del fitto scambio epistolare, del delinearsi di un denso lavoro fatto di passaggi, confronti e osservazioni che costituirono l’humus del libro. I coautori non hanno mai passeggiato insieme attraversando la banlieu parigina ma il loro incontro avviene proprio nello sviluppo di questo rapporto tra scrittura e fotografia , sondato nelle loro valenze comunicative.

[…]. io e Robert Doisneau non abbiamo ancora mai passeggiato insieme nella banlieue; il nostro incontro avviene di fatto in quest’opera, sotto forma di felice collaborazione; io scelgo a partire da una prima e da una seconda selezione fatte dall’amico Pierre Seghers sulle cinquantamila foto che Doisneau ha scattato nella banlieue e di cui non posso neanche immaginare la varietà, e Doisneau, che non avrebbe mai potuto seguire le mie orme in tutti gli angoli della banlieue in cui ho trascinato le suole da cinquant’anni a questa parte se lo avesse saputo o se gli avessi dato qualche minima indicazione, perché da allora ci è passata troppa gente e molti di quegli angoli sudici oggi non esistono più o non valgono il disturbo, ha quindi fotografato quello che ha voluto, un po’ a casaccio, lasciandosi ispirare da ciò che vedeva[…].

Cos’hanno in comune linguaggio fotografico e scrittura, si chiede Cendrars nel raccontare questo scenario ottimale per il romanziere alla ricerca di tracce immutabili di corruzione, (com’è stato, del resto, per altri grandi scrittori) e ambiente ideale per il fotografo alla ricerca del fugace pittoresco?

Doisneau, ad esempio, scrive a Cendras per dirgli che non ha potuto fotografare gli operai che si recano in fabbrica la mattina perché non ha emulsioni sensibili per scattare delle istantanee alla luce vaporosa dell’alba; i flash, infatti, rovinano l’atmosfera creata dal grigiore che avvolge la banlieu al risveglio. Le sue parole a proposito dell’illuminazione, richiamano a Cendrars l’ombra che invece il suo testo proietta sulle immagini. L’obiettivo ha bisogno di una luce che affievolisce tutto mentre la sua penna si trova perfettamente a suo agio con l’inchiostro corrosivo della notte. La bellezza di questo libro sta proprio nella contrapposizione tra la visione gentile e commossa di Doisneau e la scrittura cruda di Cendrars che non esita a rendere immaginabile l’inimmaginabile, tramite passaggi testuali che suscitano orrore, come il racconto di Sans–Dos, un ex lottatore del lunapark che, per guadagnarsi da vivere allestisce uno spettacolo di piazza in cui si fa mordere la faccia da grossi topi di fogna:

[…]. C’è folla. L’ingresso costa cinquanta franchi. E il colosso si mette sulle spalle una grande gabbia con le sbarre di ferro in cui inserisce la testa e se la serra stretta sul collo con una garrota a vite. Nella gabbia vengono liberati tre grossi topi di fogna che si mettono a saltare negli angoli e a girare in tondo e che l’empio individuo eccita schioccando la lingua, guaendo come un cane, scuotendo la gabbia, facendo scorrere le dita dall’esterno sulle sbarre, stuzzicandoli, imitando i loro squittii

di rabbia. Alla fine, il più coraggioso dei topi si lancia e d’un balzo gli si aggrappa con i denti a una delle orecchie. Il secondo si aggrappa all’altro orecchio. Il terzo scatta, gli si aggrappa alla fronte, al naso o alle labbra e non molla più la presa. A quel punto l’uomo fa il giro del pubblico in modo che ognuno dei presenti possa verificare personalmente come quelle bestie

immonde gli mordano la carne e gli succhino il sangue. La sua faccia sfregiata vorrebbe apparire sorridente, l’uomo vorrebbe riattaccare con le sue chiacchiere da imbonitore, ma non riesce a parlare. Strizza l’occhio, le palpebre graffiate. Sorveglia le bestiacce da vicino, con i suoi occhi sporgenti da miope incollati a quelli rossi dei topi. Suda. Ha un piattino in mano e quando ha fatto il giro del pubblico e il piattino trabocca di grosse banconote stropicciate, un, due, tre, decapita e divora il topo che gli sta aggrappato davanti alla bocca e, a destra e a sinistra, gli altri due che gli dondolano dalle orecchie e che lui sventra con un morso o a cui rompe la spina dorsale, a seconda dei giorni, dell’umore e dell’appetito che ha.

È ripugnante. Poi fa i gargarismi con l’acquavite e beve un sorso di vino rosso. Il pubblico è in delirio […].

Il racconto di Cendrars, di una periferia che vive il sogno di un’ opulenza improvvisa che trasforma lo scenario in un fantastico sociale, è suddiviso geograficamente secondo i quattro punti cardinali. Impregnato di pessimismo sistematico, teso verso la denuncia politica e sociale, si sofferma ad esempio sulla speculazione edilizia che ha dato vita a quei grandi casermoni sociali :[…] Tutto è un bluff in questi casermoni rumorosi, dagli ascensori in panne fino alle cantine dove il vino va a male, diventa aceto. Di vero ci sono solo le disgrazie: la tubercolosi via via che i bambini aumentano negli alloggi troppo angusti, le corna a tutti i piani, le preoccupazioni annegate nell’alcol e le grida, dietro le porte, delle donne che vengono battute come tappeti […]

Qui il sogno piccolo-borghese di avanzamento sociale è incarnato dal padiglione individuale. È la periferia verde, la “banlieu dei ricchi” dove l’amore isterico per la natura e la smania della proprietà ha favorito la scelta, in un gran numero di droghieri, passacarte, bottegai arricchiti, impiegati che hanno risparmiato un’intera vita sui salari, di ritirarsi, con il loro triste sogno, in una di queste case: [] ma che rivelazione sull’inconscio di tutto un popolo di piccolo borghesi imbecilli che hanno sgobbato una vita intera per potersi permettere una cosa del genere […]. Cosa dedurne -si chiede Cendrars – se non che siamo spacciati quando un paese come la Francia arriva a questo punto? Particolarismo, ignoranza politica, pensiero materialista, mentalità da piccolo risparmiatore, separatismo, ipocrisia e grettezza, sono alcune delle stimmate che lo scrittore attribuisce ad un ambiente sociale che fa apparire deviante sotto molti aspetti. Nonostante la trasformazione urbana, l’ampliamento della rete ferroviaria e stradale, segni di possibile progresso, non condivide l’ottimismo solitamente promosso da urbanisti, architetti, politici e media, ma ne trae ispirazione, al contrario, per un bilancio disastroso. È uno spazio geografico che si espande ogni giorno di più e con esso la minaccia di una crescente miseria sociale, di un mondo truccato, materialista, ingiusto, duro, cattivo.

[…]. Au Bon Coin, un bistrot, dieci bistrot, cento bistrot, bistrot a migliaia, bettole d’ogni tipo, e poi caseggiati a perdita d’occhio che sono fra i più squallidi della banlieue di Parigi, edificati su un suolo impregnato d’acqua, in un paesaggio desolato composto esclusivamente di ciminiere di fabbriche chiuse o fumanti, abbandonate o in attività, che spandono tutto intorno i loro vapori deleteri e la puzza delle distillerie, canali luccicanti di oli minerali e di altri precipitati chimici che vi vengono sversati, strade viscide sconnesse dal traffico intenso dei pesanti camion a nafta, fango, pioggia, polvere, schizzi di catrame, alberi rinsecchiti, cartelloni pubblicitari abbattuti o come minimo imbrattati, viottoli dissestati, sentieri oscuri, casette di rosticcio, di agglomerato, di blocchi di calcestruzzo, di lamiera, mucchi di calcinacci nei campi, oggetti accatastati, impalcature e materiale di risulta, cantieri che si riempiono d’acqua che gocciola, e chilometri e chilometri di filo spinato e di steccati tra terreni in abbandono sotto il cielo basso invaso dai fumi e solcato dai fischi stridenti delle locomotive dei treni che sfrecciano sotto gli acquazzoni[…]. La scrittura di Cendrars è come un referto d’autopsia, una vertigine, disorientante come un cuore che batte all’impazzata.

Domeniche e feste, il tempo libero: Doisneau invece disegna i contorni di una periferia che tende a fissare un’immagine di facile felicità, attingendo al teatro permanente della strada: documenta le allegre assemblee nei bistrot dove la gente andava a celebrare i matrimoni, le gioie semplici di chi si rallegra con attrazioni poco costose, i cortei dei giorni di festa. Il suo è un racconto gentile, quasi commosso, illuminato da una luce morbida e seducente. Ma i suoi soggetti preferiti sono i bambini, con i loro sogni, i loro desideri, ritratti nelle strade fangose, tra i muri scalcinati, colti nelle piccole incombenze della vita quotidiana, durante i loro giochi, in una terra di nessuno.

I bimbi piccoli. Chi sono? E da dove vengono? E dove vanno? Tra le due ultime foto di bambini della banlieue di Parigi presenti alla fine del volume non è sicuramente quella del piccolo portoghese di Ivry che un giorno farà parlare di sé a Saint-Denis, la capitale rossa, ma piuttosto quella del figlio di Israele di Aubervilliers, quel bambino fotografato in un momento di illuminazione spirituale in una curva fangosa e solcata da tracce di pneumatici, che mi fa pensare al re Davide. Chissà di cosa stava fantasticando quel povero bambino quando Robert Doisneau lo ha sorpreso! Forse del gigante Golia che un giorno ucciderà con un colpo di fionda, con un sasso in mezzo agli occhi. (Saint-Segond, 15 luglio – 31 agosto 1949)

A rendere interessante il duplice sguardo è il principio che la grande identità della periferia non può essere letta a senso unico: se è evidente che esistono tensioni, conflitti sociali ,sacche di malessere, c’è anche una poesia dell’ordinario che talvolta la fotografia, scrivendo con la luce e non con la penna, riesce a cogliere.

[…] Guardate le facce delle persone nel metrò di Antony o di Sceaux. Come sono dolci e gentili questi francesini! Quasi mi vergogno di aver scritto quello che ho appena scritto tanto queste persone sembrano amichevoli. Devo arrendermi all’evidenza. Solo la fotografia riesce a dare alla gente una simile aria di famiglia quasi impossibile da rendere con la scrittura […].

Rossella Nicolò

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La banlieue di Parigi

Blaise Cendrars

Robert Doisneau

Traduzione di: Federica di Lella

Edizioni Clichy.


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